Virus e pandemia, sapevamo già tutto: quel dossier datato 2007
Sapevamo tutto, o quasi. Eravamo consapevoli che l’onda pandemica sarebbe arrivata, forse non esattamente quando. Ma lo sapevamo. Da tre lustri viviamo con la certezza che il virus ci avrebbe colpito, avrebbe ucciso, avrebbe affossato le economie locali e mondiali, eppure non ci siamo preparati a dovere.
“Fondamentale risulta la cosiddetta ‘preparedness’, ovvero la capacità di reazione e gestione degli effetti di un evento pandemico”, si leggeva in un corposo opuscolo pubblicato da fior fior di esperti qualche anno fa. Era il 2007.
Il dossier spunta da una vecchia cantina ed è l’emblema di come il mondo non abbia ancora imparato a trarre lezioni dal passato. Corsi e ricorsi storici, diceva Gian Battista Vico. Anche per le pandemie funziona un po’ così. Era l’11 ottobre di 14 anni fa a Milano, Centro Congressi Fondazione Cariplo, quando venne organizzato un convegno talmente attuale da far paura. Titolo: “Pandemia influenzale, Salute, Economia, Sicurezza”. Tra i relatori svettavano alcuni degli autori dell’inserto (“Pandemia: dall’influenza epidemica all’influenza pandemica”) pubblicato in quello stesso periodo dal Sole24Ore sul ruolo, i rischi e le responsabilità delle imprese in caso di una “probabilità concreta, anche se non desiderabile” che il mondo venisse investito da una pandemia. Ad ispirare quella ricerca erano state le notizie circolate un anno e mezzo prima, quando sui media non si parlava d’altro che del virus H5N1, più comunemente noto come “influenza aviaria”, un agente patogeno con un “tasso di mortalità superiore al 60% nei contagiati” (dunque molto più dell’attuale Sars-CoV-2) e senza “che sia possibile produrre un vaccino”. Le aziende erano così preoccupate dagli “oscuri presagi” provocati da quello spauracchio, poi “caduto nell’oblio”, da iniziare a pensare che forse il mondo avrebbe dovuto prepararsi al peggio.
Scriveva infatti Mauro Moroni, dell’Istituto di Malattie Infettive e Tropicali, che “gli scienziati hanno pochi dubbi sul fatto che il futuro ci riservi una nuova pandemia influenzale” anche se “ancora non sanno quando si verificherà e da quale virus sarà provocata”. In fondo le pandemie sono eventi ciclici: nel 1918 la “Spagnola” (virus H1N1) uccise 50 milioni di persone; nel 1957 la “Asiatica” (H2N2) ne ammazzò 1-4 milioni; mentre nel 1968 l’ultima influenza, chiamata “Hong Kong” (H3N2), ne portò all’altro mondo 2 milioni. Ed essendo “passato troppo tempo dall’ultimo significativo evento pandemico”, per Marco Frey (Scuola Superiore Sant’anna di Pisa) “la guardia” doveva essere tenuta “alta”. Prima o poi ci sarebbe toccato di nuovo. Certo, il virus influenzale che si presumeva “più indicato nella prossima pandemia” era “il virus aviario A (H5N1)” e come ben sappiamo non è andata così. Eppure tutte le altre previsioni dell’opuscolo si sono verificate con una precisione quasi demoniaca.
Si pensi agli effetti sociali ed economici del morbo. Nel lontano 2007 a preoccupare maggiormente erano l’assenteismo, il blocco dei processi produttivi e distributivi, la crisi del settore finanziario, della filiera agricolo-alimentare, dei trasporti e del sistema sanitario. Tutto quello che poi è effettivamente successo nel 2020 per colpa del virus “cinese”. “La miglior difesa”, scriveva allora Paolo Tedeschi, sarebbe stata quella di “adottare una prospettiva cautelativa, ragionando per approssimazione a partire dal parente più prossimo” di ogni pandemia, “ovvero l’influenza stagionale”. In sostanza, dicevano gli esperti, se l’Italia e il mondo si fossero preparati ad affrontare un’ondata più aggressiva della normale influenza (che già di suo provoca morti, perdite economiche e pressione sul sistema sanitario), forse ci saremmo risparmiati un anno di lockdown, promesse non mantenute, blocchi, danni.
In fondo, benché non riguardanti direttamente il coronavirus, di stime ne avevamo a bizzeffe. “L’impatto economico” della Sars nei paesi asiatici era stato valutato dal -0,6% al -2% del Pil. Inoltre a Toronto quel virus aveva già “comportato la quarantena di 15mila persone, l’abbandono del trasporto pubblico e l’implosione del sistema sanitario locale (anche a causa dell’elevato tasso di contagio proprio tra il personale sanitario)”. Notate analogie con i tempi moderni? Per l’Italia dal punto di vista economico le conseguenze di una pandemia erano state già calcolate sulla base di tre scenari: un danno “contenuto si attesterebbe sullo 0,6% del Pil, ovvero 8,5 miliardi di euro, un danno ‘medio’ a circa 28 miliardi (2% del Pil) mentre un impatto grave (6,5% del Pil) significherebbe perdite fino a 92 miliardi, pari cioè a quasi l’intero bilancio annuale del Servizio Sanitario Nazionale”. A conti fatti, avevamo messo in conto “riduzioni dei consumi a medio termine per alimentari, abbigliamento, turismo, ristorazione e trasporti”. Infatti è andata proprio così, e forse pure peggio: nel 2020 il calo del Pil è stato dell’8,8%.
Non è tutto. “Sulla base delle precedenti” esperienze, gli esperti 14 anni fa calcolavano che “il livello di infezione” di una nuova pandemia aviaria si sarebbe attestato “tra il 25% e il 30% della popolazione, con un numero di ammalati in Europa compreso tra 114,8 e 137 milioni (da 14,6 a 17,5 in Italia), ed una mortalità pari a 1,1 milioni di decessi (in Italia circa 146.156 morti)”. A mettere i brividi non è solo quanto quelle stime si avvicinano a quanto registrato in questo ultimo anno (nel Belpaese la Covid-19 ha ucciso 105mila persone), ma il fatto che benché fosse tutto così “chiaro” sin dal 2007 il ministro Speranza e il Cts abbiano deciso di tenere “riservato” lo studio che confermava numeri simili per Sars-CoV-2.
L’opuscolo, benché datato, diventa quindi oggi un atto di accusa drammatico contro chi, per errore o incapacità, negli ultimi 14 anni non ha fatto quanto in suo dovere. Mette con le spalle al muro chi non ha aggiornato il piano pandemico nazionale, chi ha scelto di non applicarlo, chi si è dimenticato di aggiornare le difese alle linee guida di Oms e Ue, chi ha spedito mascherine in Cina invece di incrementare le scorte, chi non ha preparato in anticipo un piano vaccinale, chi ha organizzato aperitivi sui Navigli, chi non è intervenuto in tempo per circoscrivere i danni sanitari, economici e sociali della pandemia. Il testo certifica pure come il mondo industriale, benché informato già dal 2007, invece di “partecipare a un progetto di prevenzione di un rischio pandemico” insieme alle istituzioni (addirittura si suggeriva un piano pandemico aziendale e scorte di antivirali), alle prime avvisaglie abbia cavalcato campagne come Milano (e Bergamo) non si ferma. Ma soprattutto il dossier smonta la retorica tanto cara al passato governo, cioè il racconto di una tragedia arrivata come un “cigno nero”. Non è così: sapevamo che sarebbe successo, eppure siamo finiti lo stesso “in balia della pandemia”.