Primo raid dell’era Biden: colpite milizie in Siria

L’era di Joe Biden alla Casa Bianca inizia a livello internazionale con il primo raid in Siria. Come confermato dal Pentagono, il presidente degli Stati Uniti ha ordinato un bombardamento contro siti che secondo l’intelligence Usa sono utilizzati da miliziani filo-iraniani nella parte orientale del Paese. “Questi raid sono stati autorizzati in risposta ai recenti attacchi contro personale americano e della coalizione in Iraq e alle minacce continue a questo personale”, ha detto il portavoce della Difesa, John Kirby, il quale ha specificato che l’attacco è avvenuto espressamente “su ordine del presidente”, colpendo siti “usati da vari gruppi militanti sostenuti dall’Iran, compresi Kaitaib Hezbollah e Kaitaib Sayyid al-Shuhada”. Per Kirby, il raid “invia un messaggio inequivocabile: il presidente Biden agirà per proteggere il personale della coalizione americana. Allo stesso tempo abbiamo agito in modo deliberato puntando a calmare la situazione sia nella Siria orientale e sia in Iraq”.

La mossa di Biden arriva in un momento molto delicato degli equilibri del Medio Oriente. Il 15 febbraio è iniziata un’escalation contro le forze Usa in Iraq che ha portato a diversi attacchi nei confronti delle truppe americane. Il mirino è puntato contro le forze filo-iraniana e presenti in Iraq, da sempre un vero tallone d’Achille della strategia Usa in Medio Oriente. Il Paese che era stato invaso dagli americani nel 2003 è diventato infatti in questi anni uno dei maggiori partner dell’avversario strategico di Washington, Teheran. E non va dimenticato che è stato proprio in Iraq che il predecessore di Biden. Donald Trump, ha ordinato il raid per uccidere il generale iraniano Qasem Soleimani. Una mossa che Baghdad aveva ovviamente condannato, posto che il territorio sotto l’autorità irachena è diventato un terreno di scontro tra due potenze esterne.

Questa volta a essere colpita è stata la Siria. E già questo è indice di una strategia precisa della Casa Bianca. Colpire la Siria, in questo momento, equivale per il Pentagono a colpire un territorio con un’autorità che non riconoscono e che hanno provato a rovesciare. Situazione ben diversa rispetto all’Iraq, dove gli Stati Uniti vogliono invece evitare che il Paese si rivolti contro le forze lì presenti e dove c’è un governo che l’America riconosce come interlocutore. Il fatto che il raid sia arrivato in Siria ma in risposta agli attacchi in Iraq, segnala che non si vogliono creare problemi al governo iracheno,.

L’attacco conferma anche un ulteriore problema per l’amministrazione americana. La presenza delle milizie filo-iraniane in Siria e in Iraq è un nodo che è stato tutt’altro che sciolto. Da tempo i generali Usa avevano chiesto alla Casa Bianca sotto Trump di evitare il ritiro delle truppe dalla Siria proprio per escludere la possibilità che le forze legate a Teheran riprendessero piede nella regione. Trump, recalcitrante, ha comunque accettato le richieste del Pentagono (e di Israele) evitando un ritiro rapido delle forze americane. Per la Difesa Usa c’era anche il rischio di un rafforzamento della presenza russa (Mosca ha condannato l’attacco parlando “un’azione illegittima che va condannata categoricamente”). Quel ritiro non si è mai tramutato in realtà, tramutandosi in un fantasma che per molti mesi si è aggirato per i corridoi di Pentagono e Casa Bianca e negando alla radice una delle promesse del presidente repubblicano: la fine delle “endless wars”.

Il raid americano di questa notte non indica in ogni caso un ritorno in forza dell’America in Siria. Il bombardamento è stato molto circoscritto e in un’area che è da tempo nel mirino delle forze Usa in Medio Oriente. Ma non va dimenticato anche il fattore “negoziale”. Gli Stati Uniti stanno trattando con l’Iran per rientrare nell’accordo sul programma nucleare: ma per farlo devono mostrare i muscoli. Come riporta il Corriere della Sera, Barack Obama era solito dire che “si negozia con il fucile dietro la porta”. Trump lo ha fatto uscendo dall’accordo, uccidendo Soleimani e inviando bombardieri strategici e navi nel Golfo Persico. Biden ha cambiato le carte in tavola: ha optato per un freno agli accordi con le monarchie arabe per far capire di non essere allineato alla politica di Trump, congelando gli F-35 agli Emirati e le armi ai sauditi in Yemen. Ma nello stesso tempo ha voluto lanciare un segnale direttamente all’Iran colpendo le milizie al confine tra Iraq e Siria. Tattiche diverse, strategia diversa, ma con un obiettivo comune: l’Iran.

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