Le fosse comuniste dell’orrore: qui la gente spariva nel nulla
Come noto, negli ultimi anni la Memoria della tragedia della Foibe è sotto attacco da un numero crescente della sinistra giustificazionista o revisionista, nel solco inaugurato più di venti anni fa dalle note Alessandra Kersevan e Claudia Cernigoi.
La differenza è che se queste ultime avevano un pubblico ristretto a poche centinaia di visitatori sui loro siti web e ben scarsi lettori dei loro pamphlet autoprodotti e qualche decina di spettatori alle loro conferenze presso la sinistra radicale, ora le loro tematiche si stanno facendo strada verso parti sempre più rilevanti del grande pubblico, sino ad approdare alle porte dell’editoria di massa e della politica nazionale.
A questi attacchi la risposta organica culturale e politica è ancora lungi dal vedersi, limitata tra le poche altre alle documentate pubblicazioni edite dal mensile Storia in Rete (n°123-124, n° 136, n° 161, n° 173 e lo Speciale n° 8 Dalle Foibe all’Esodo. Radici, storia, vittime, responsabili e complici di una tragedia italiana) e alla interessante iniziativa del fumetto Foiba rossa. Norma Cossetto, storia di un’italiana di FerroGallico (Milano 2018), la quale però, pur indovinata nella scelta del media per l’uso divulgativo rivolto ai giovani, non rappresenta appunto una risposta storiografica, mentre mancano del tutto sia un’opera attendibile e nel contempo divulgativa di risposta a questi attacchi, sia un’opera scientifica sulle Foibe impostata sull’analisi scientifica-documentale di questi avvenimenti. Le foibe degli altri
Nel 2004, infatti, il centrodestra ha raggiunto l’obiettivo di porre finalmente in luce la tragedia delle foibe e dell’esodo e dell’istituzionalizzarne la memoria con il Giorno del Ricordo ha sostanzialmente pensato che la “missione fosse compiuta”, mentre è evidente che uno spazio una volta occupato deve essere continuamente presidiato, pena la sua riconquista dall’avversario. Vale per le scienze militari, vale per la politica, vale per la storiografia su temi contestati politicamente.
Inoltre, un altro tra i diversi limiti di questa impostazione è stato il quasi totale disinteresse verso gli avvenimenti e le ricerche oltre il confine su quelle che chiameremo “le altre foibe”, ossia le conseguenze della strategia di repressione del dissenso interno da parte di Josif Tito delle stesse popolazioni slovene, croate e serbe. Pur con alti e bassi derivanti dalle convenienze politiche contingenti, in Slovenia e Croazia dal 1990-1991 in poi sono stati fatti da autorità e ricercatori storici degli sforzi ben maggiori rispetto alle controparti italiane per ricostruire e trasmettere la memoria delle atrocità titine, arrivando a cristallizzare tramite scavi, analisi forensi (vedi Pavel Jamnik, “Inclusion of Archaeology in Criminal Investigations – Slovenia”, in Forensic Archaeology: a Global Perspective, Hoboken 2015) e studi (come la raccolta di saggi Slovenjia 1941, 1948, 1952. Tudi mi smo umrli za domovino edita dalla “Associazione per la sistemazione dei sepolcri tenuti nascosti”, Lubiana 2000, tr. it. Slovenia 1941-1948-1952 – Anche noi siamo morti per la patria. I sepolcri tenuti nascosti e le loro vittime, Milano 2005, la quale, pur disomogenea nella qualità dei contenuti, rappresenta un’opera di grande importanza storico-documentale) le evidenti e inconfutabili prove dei massacri di massa titini. A dimostrazione che non erano esclusivamente i veri o presunti “crimini nazifascisti” ad alimentare questi eccidi, ma bensì il cinico e lucido progetto totalitario, espansionistico e repressivo di Tito, maturato sin dai suoi esordi politici negli anni ’20, pianificato lucidamente e eseguito dal suo rodato braccio armato, ossia la polizia politica dell’Ozna (William Klinger, Ozna. Il terrore del popolo. Storia della polizia politica di Tito, Trieste 2015). Tra l’altro, bisogna ricordare come questo progetto totalitario non dipese come pretendono giustificazionisti e negazionisti da una “risposta” alle vere o presunte precedenti violenze degli occupanti italiani dal Ventennio al 1945, poiché a essere perseguitati e talvolta liquidati furono anche gli stessi comunisti slavi e italiani, quando in disaccordo con la linea politica di Tito.
Per quanto riguarda la sola Slovenia, sono stati identificati oltre 600 siti in tutta la nazione, mentre resti umani sono stati per ora trovati in ventisette. Le esecuzioni di massa effettuate dai titini sul territorio sloveno prima della fine della guerra riguardarono principalmente soldati tedeschi e italiani catturati in azione e collaborazionisti, per poi dopo il 1945 interessare anche – e soprattutto – nemici “etnici” come gli italiani, e sloveni, croati e serbi vittime delle purghe politiche o consierati “nemici del popolo”, per un totale stimato di circa 100.000 vittime.
Una di queste “altre foibe” è il pozzo minerario di Huda Jama, dove i partigiani di Tito giustiziarono 2.500 persone tra veri e presunti “collaborazionisti” e civili. Negli anni scorsi sono stati riesumati i resti di 778 persone, e le fotografie scattate all’interno del pozzo sono una agghiacciante testimonianza visiva dell’eccidio.
Oltre a Huda Jama e a Kočevski rog, dove furono liquidati con un colpo alla nuca 2.000 domobranci sloveni, 3.000 serbi, 2.500 croati e 1.000 montenegrini, c’è il sito di Tezno, vicino a Maribor, una delle “foibe” più grandi della Slovenia. Qui, nel 1999, furono ritrovati i resti di 1.179 persone. Nel 2007 i sondaggi che furono effettuati dimostrarono che l’intera cavità lunga 930 metri è piena di cadaveri. Le prime stime fatte dagli esperti parlano di circa 15.000 vittime gettate del buco (Mauro Manzin, Lubiana “dimentica” le vittime dei titini, “Il Piccolo”, 4 marzo 2015).
Una “topografia dell’orrore” che merita di essere studiata e approfondita anche in Italia, sia per il rispetto comune dovuto a queste vittime al di là della loro nazionalità, sia per le lezioni da apprendere per uno studio scientifico delle persecuzioni titine verso gli italiani e per rispondere efficacemente agli “utili idioti” giustificazionisti filo titini nostrani.