Patrizio Bianchi, il vice-Azzolina al ministero dell’Istruzione: i dubbi sulla scelta di Mario Draghi
Ci sono due domande e la prima è per chi vuole vincere facile: stiamo meglio di prima? La risposta è sì, certo. Tra il curriculum e la personalità di Mario Draghi e quelli di Giuseppe Conte c’è qualche galassia di distanza, Marta Cartabia sta ad Alfonso Bonafede come l’ostrica sta alla cozza, la presenza della Lega e di Forza Italia fa sperare che non ci siano altri stupri dei contribuenti e così via. Ma la seconda domanda è: si poteva fare di meglio? E la risposta, purtroppo, anche qui è sì. Si poteva e si doveva. Perché se questo è davvero il governo dell’ultima possibilità, chiamato a salvare le prossime generazioni di italiani, troppe cose non si spiegano e gridano vendetta al cielo. Iniziando dalla più evidente: Roberto Speranza.
Davvero, nell’ora più buia, un Paese di 60 milioni di abitanti, 400mila medici e 950 parlamentari non offre nulla di meglio dello sprovveduto laureato in Scienze politiche sotto la cui gestione l’Italia ha avuto 93.356 morti per Covid, a un passo dal record mondiale per numero di vittime in rapporto alla popolazione, e ha fallito con tracciamenti e tamponi? Uno che ha sbagliato a scegliere tre commissari alla sanità calabrese, ha difeso Domenico Arcuri a spada tratta e ha scritto un libro intitolato Perché guariremo, ritirato per pudore prima che arrivasse sugli scaffali: era lui, sul serio, il più qualificato?
Fosse il solo. Vogliamo parlare di Luigi Di Maio, professor Draghi? La filosofia è chiara: con un premier così, il volto dell’Italia nel mondo sarà lei e nessuno dovrebbe fare caso al figurante della Farnesina. E poi toccava dare una medaglietta all’ala governista dei grillini, che per correre da lei ha piantato l’ultimo chiodo sulla bara del M5S. Ragioni che non giustificano lo scempio, però.
Ambizione smodata a parte, quali qualità ha Di Maio per meritare una poltrona in questo governo, il terzo consecutivo? Soprattutto: che hanno fatto di male gli italiani per essere ancora rappresentati ai vertici internazionali da uno simile, convinto che Augusto Pinochet fosse un dittatore venezuelano, che prima chiama «Ping» il presidente cinese Xi Jinping e poi lo ringrazia per «l’amicizia e la solidarietà» dimostrate all’Italia durante la pandemia? Se la nomina di Draghi ci ha restituito un po’ di autostima (un premier che mette paura ai tedeschi, finalmente), la conferma agli Esteri del bibitaro dello stadio San Paolo ricorda a noi stessi e al mondo che dietro all’eccezione c’è ancora una banda di Pulcinella. Un altro mistero doloroso siede al ministero del Lavoro. Nell’album di famiglia del Pd c’era Pietro Ichino, che conosce uno per uno errori e colpe dei sindacati. Altrove c’era l’economista Carlo Cottarelli, che sa come cancellare gli sprechi del reddito di cittadinanza. Ce n’erano tanti. È toccato invece al vicesegretario del Pd Andrea Orlando, curriculum da apparatchik di una volta: dalla Fgci al governo passando per Pci, Pds, Ds, Ulivo e Pd. Senza mai fare altro nella vita.
Con lui, ala sinistra dei democratici, la Cgil sa di giocare in casa. E qui, tutto dipende dalle intenzioni di Draghi: se vuole liberare l’Italia dai ricatti dei sindacati, doveva citofonare a qualcun altro. Ma è chiaro che i colonnelli del Pd hanno avuto un trattamento di favore. Lo sa bene Dario Franceschini, inamovibile ministro della Cultura. Qualcuno ricorda Verybello.it? No, infatti era la piattaforma digitale da lui voluta nel 2015 per raccontare «il museo diffuso che è l’Italia». Chiusa perché nessuno se la filava. Nei mesi scorsi ha deciso di riprovarci con «la Netflix della cultura», finanziata con 10 milioni di euro del suo ministero, cioè nostri, e destinata anch’ essa al fallimento, proprio perché partorita da personaggi come lui. Intanto i lavoratori dello spettacolo protestavano sotto il suo ministero, nessuno ha capito perché cinema e teatri non possano stare aperti, con capienza ridotta e adeguato distanziamento. Hanno chiesto le sue dimissioni, l’imperscrutabile volontà di Draghi lo ha confermato per meriti ignoti.
Un po’ come successo al grillino Stefano Patuanelli. La bella notizia è che abbandona il ministero dello Sviluppo economico, dove lascia 105 tavoli di crisi aziendale aperti, che significano 120mila lavoratori in pericolo, e Alitalia ancora sul groppone dei contribuenti. La brutta è che Draghi lo ha dirottato al ministero delle Politiche agricole. Solidarietà ai contadini e agli allevatori. Da scoprire ancora, nelle vesti di ministro, l’ex prodiano Patrizio Bianchi. Il poco che si sa di lui, però, inquieta, e non solo perché si riempie la bocca con espressioni tipo «collaborative problem solving skills» ed è convinto che la classe scolastica sia «una microcomunità che ha sempre meno senso». Sino a ieri è stato a capo del gruppo di esperti voluto da Lucia Azzolina per garantire la riapertura delle scuole, con i risultati che si sono visti. A giugno Bianchi fu chiamato in audizione davanti ai deputati e al termine la forzista Mariastella Gelmini lo accusò di avere «balbettato» senza dire nulla: «Non è accettabile che ancora non ci sia uno straccio di piano per la ripartenza delle scuole». Lo hanno promosso ministro e da ieri i due lavorano insieme. Che Dio ci aiuti.