Paola Taverna prima di vendersi per la poltrona: “Il PD? Mafiosi, mer***, dovete morire”. Ora che dice dei compagni?
Fra gli effetti collaterali del papabile Conte ter vi è il ribaltamento del principio di non contraddizione che – almeno in politica – era stato sempre temperato da un altro assunto: il pragmatico «mai dire mai». Questo, ovviamente, valeva anche prima che precipitasse nell’agone politico il moralismo di Grillo, Di Maio, Di Battista & co: ricordiamo, ad esempio, quando Gianfranco Fini prometteva «con Bossi nemmeno un caffè», salvo poi governare a più riprese con il leghista, con tanto di legge sull’immigrazione co-firmata. Ma è con i pentastellati che il tempo di rovesciamento totale di un “non possumus”, sigillato a suon di «vaffa», ha raggiunto il record di queste ore.
Tutto in 15 giorni: dal 14 gennaio – «Irresponsabile, le nostre strade sono definitivamente divise», sentenziava Luigi Di Maio nei confronti dell’ex rottamatore – a tre giorni fa, con Roberto Fico, presidente della Camera pentastellato, chiamato da Mattarella ad esplorare la possibilità di un Conte ter con… Renzi. Tutto ciò grazie proprio al nulla osta del grillino Vito Crimi. L’obiettivo di Fico, si sa, è quello di verificare «la prospettiva di una maggioranza a partire dai gruppi che sostenevano il precedente governo». Governo che, si sa pure questo, è imploso proprio perché il premier avrebbe creato «un vulnus alle regole del gioco» democratico, come denunciava un preoccupatissimo Renzi il 13 gennaio. E che ha fatto allora Italia Viva? Dopo aver tuonato contro il «reality show» messo in piedi da Conte e aperto la crisi, ha riaperto alla «prospettiva» di un esecutivo con lo stesso premier. Parola del renziano Ettore Rosato, convinto che proprio con Conte e i grillini – quelli del “no Mes”, dei bonus e della riforma Bonafede – «ci siano i presupposti per fare un buon lavoro…».
MAI DIRE MAI
Mai dire mai, appunto. Se non fosse che di «mai», conditi con i peggiori insulti, è lastricato tutto il percorso di questa intesa giallo-fucsia. In principio – estate 2015 – fu la pasionaria grillina Paola Taverna che si rivolgeva così ai colleghi del Pd: «Mafiosi, schifosi, siete delle merde, dovete morire». Erano passati non troppi mesi dalle consultazioni show dove fra l’allora premier in pectore Renzi e Grillo lo scambio di complimenti era il seguente: «Beppe esci da questo blog…» affermava il primo, mentre il comico ribatteva «rappresenti un potere marcio non sei credibile, non ti do la fiducia». Già, quelli erano i bei tempi di «ebetino» (Grillo a Renzi), «pregiudicato» (Renzi a Grillo), «uomo delle banche (Grillo a Renzi), «fai schifo» (Renzi a Grillo).
Attenzione, oggi come ieri il problema – fra piddini e grillini – non è personale. Parola loro. Per Max Bugani, uomo forte della Casaleggio, il Pd era «il partito di lotta e massoneria». Ancora per Renzi, invece, «il M5S è il partito degli ex onesti: ha una classe dirigente di scappati di casa». Si dirà: archeologia politica. Il discorso non muta però spostandoci a ridosso delle Politiche 2018. Come parlava Alessandro Di Battista? «Il Pd è un punto di riferimento del crimine». E per Di Maio? «Assassini politici della mia gente» e – per non farsi mancare nulla – «Il Pd si fa pagare da Mafia Capitale». E i dem come rispondevano? Davanti alla prima ipotesi di intesa le porte erano sbattute: «Sono anti-europeisti, anti-politici, usano un linguaggio di odio», attaccava Renzi.
Niente da fare anche per il futuro “contiano” Dario Franceschini: «Mai pensato che sia possibile fare un governo con i 5 Stelle. Sufficientemente chiaro?». Chiarissimo. Come lo fu Di Maio nella più celebre delle boutade: «Io col partito di Bibbiano non voglio averci nulla a che fare – assicurava nel luglio del 2019 -. Col partito che toglieva alle famiglie i bambini con l’elettro-shock per venderseli…». Nessuna possibilità nemmeno per Nicola Zingaretti, neo-leader maximo del Pd: «Io ve lo dico davanti a tutti – lamentava febbrile nel febbraio di quello stesso anno -. E ve lo dirò per sempre. Non intendo favorire nessuna alleanza o accordo con i Cinquestelle. Li ho sconfitti due volte e non governo con loro».
LA PAURA DELLE URNE
E invece, al diavolo la coerenza e gli insulti: si va al governo insieme. E a chi non stava bene – in tanti nel MoVimento – ci ha pensato Grillo col suo solito stile: «Non voglio che rimanete qui a dire sempre “Il Pd, il Pd, il Pd…”. Vaffanculo a voi stavolta», urlava dalla kermesse Italia a 5 Stelle. Nelle ultime settimane, dopo un anno e mezzo a braccetto, è un’altra volta rissa. Per i 5 Stelle l’ex premier ritorna ad essere l’inaffidabile: «Se Renzi ritirasse i ministri sarebbe un tradimento per gli italiani e diremmo no a un nuovo governo con Iv», assicurava a nome di tutto il M5S Vito Crimi.
Pensiero condiviso dallo stesso Zingaretti: «Da parte di Renzi e Iv c’è stato un atto gravissimo contro l’Italia». Adieu quindi? Nemmeno per sogno. La cronaca delle consultazioni – fa eccezione l’ultimo giapponese Di Battista – ha portato in scena l’ennesima giravolta. Per M5S la paura delle urne è così forte che ci si riprova con quanti hanno «lavorato in questo ultimo anno e mezzo insieme». Tradotto: Renzi è tornato la chiave di volta. Eppure qualche giorno fa il ministro grillino Stefano Patuanelli assicurava ancora: «Chi è il problema non può essere la soluzione». Nessun problema però: il principio di non contraddizione è stato abolito da un pezzo. Come la “povertà”…