Il virus inventato da tre medici per salvare i bambini dalla Shoah
Un virus terribile, estramamente contagioso e sconosciuto ai più. Una “sindrome neurodegenerativa fulminante” che poteva essere trasmessa con un colpo di tosse, o con uno starnuto – come un’influenza; e che però si sarebbe rivelata letale: anche per i soldati delle SS che avrebbero dovuto prendere i bambini per metterli su treni che portavano ad est.
Treni di morte. Treni che facevano una sola fermata, in località isolate dai nomi allora sconosciuti. Nomi che sarebbero poi rimasti impressi, stigmatizzati per sempre nella memoria un mondo sgomento di fronte all’orrore perpetrato. Uno di quei nomi era Birkenau,dove sorgevail konzentrationslager allestito nelle vicinanze di Auschwitz: il campo di sterminio più terribile, dopo quello di Treblinka.
Se non ne avete più sentito parlare del “Morbo di K”, non è perché venne trovato un vaccino che lo ha debellato – come quello per la Poliomelite. Non ne avete mai più sentito parlare perché in verità questo morbo non è mai esistito: fu l’invenzione dell’allora primario dell’Ospedale Fatebenefratelli di Roma, Giovanni Borromeo, pensato con la complicità di Adriano Ossicini e Vittorio Emanuele Sacerdoti – medico di origini ebraiche che svolgeva la professione sotto falso nome -, al fine di mettere in salvo i bambini ebrei terrorizzando le SS di Herbert Kappler, il boia di Roma che nel 16 ottobre del 1943 ordinò il razzia del ghetto. Di 1022 anime rastrellate e inviate immediatamente ad Auschwitz-Birkenau, solo 16 fecero ritorno. Pochi invece, riuscirono a scappare per rifugiarsi da amici e partente chi vivevano fuori dal quartiere ebraico.
Così i medici romani pensarono di inventarsi una malattia che doveva contagiare proprio e solo quei bambini, che erano sfuggiti al rastrellamento ma rischiavano ancora di essere trovati dalla Gestapo, come qualche altro “superstite”. Ricoverandoli in ospedale, e tenendoli in isolamento nei sotterranei dell’ospedale che sorge sull’Isola Tiberina, dove era ilreparto malattie infettive, sarebbero rimasti certamente al sicuro. Protetti dalla paura. Ai soldati tedeschi infatti, veniva intimato dai medici di non ispezionare il padiglione, avvertendoli del rischio al quale si sarebbero esposti nell’entrare in contatto con i pazienti affetti da quel terribile virus. Un virus fantasioso, che doveva il suo nome, limitato alla lettera”K“, proprio alle iniziali di Kappler, capo dei servizi segreti nazisti a Roma, e del generale Kesselring, comandante di tutte le forze armate naziste in Italia; ma che allo stesso tempo doveva evocare nei tedeschi la sinistra paura che veniva associata ad un male incurabile al cervello: a parole come Kopf e Krebs, che in tedesco significano rispettivamente testa e cancro. Così facendo il dottor Borromeo, insieme a Ossicini e Sacerdoti, si impegnò a falsificare decine di cartelle cliniche tenendo alla larga gli ufficiali tedeschi; almeno fino a quando non lasciarono Roma nel ’44.
Secondo le testimonianze raccolte dalla giornalista del Messaggero Ilaria Ravarino però, non tutti erano stati messi al corrente dell’inganno nell’ospedale; e per questo il timore era percepibile anche nel personale medico che aveva sentito mormorare di una malattia rara e mortale che infestava i sotterranei di uno dei più antichi ospedali di Roma, senza sapere che si trattava di un piano quasi machiavellico. “Chi poteva si teneva alla larga da quel reparto” – “Le SS non osavano avvicinarsi, pensando che non valeva la pena rischiare” – “E poi il morbo di K ci avrebbe comunque uccisi (la soluzione finale, ndr). Il problema più grande per noi era trovare da mangiare. Ogni tanto con mio fratello uscivamo dai sotterranei per fare cicoria, che poi cucinavamo con il carbone rubato alle cucine dell’ospedale”, racconta Giacomo Sonnino, protagonista del documentario “Sindrome K, il virus che salvò gli ebrei”.
Solo in un caso – riporta il documentario basato sui resoconti forniti dal figlio di Borromeo – le SS insistettero per tentare di far luce su quel misterioso morbo di cui nessuno aveva mai sentito parlare al di fuori di Roma. Fu durante l’inverno del 1943, che alcuni ufficiali nazisti pretesero di ispezionare il reparto insieme a un dottore militare tedesco che avrebbe dovuto visitare i ricoverati, e constatare i sintomi di quelli che per chiunque fosse al corrente della macchinazione erano diventati i “pazienti Kesserling”. A causa di un ritardo da parte degli ispettori, Ossicini riuscì a spiegare la situazione ai piccoli pazienti, convincendoli a “tacere e tossire” per spaventare i “cattivi” che portavano la testa di morto sul bavero delle uniformi. Il gioco funzionò; e così i tre medici eroi salvarono la vita a oltre cinquanta persone. Con una delle più belle e assurde bugie bianche che Roma e la medicina ricordino.