Speranza vide il piano segreto: ecco le prove che inchiodano il ministro
Le domande si accavallano una sopra l’altra. Il “piano segreto” anti-Covid esisteva? Se sì, perché il governo l’ha tenuto riservato? Come mai non l’ha inviato alle Regioni? E perché dopo averlo sbandierato ai quattro venti sui giornali con un’intervista di Andrea Urbani, il ministero della Salute da tempo fa marcia indietro smentendo di averlo mai scritto, visto o avuto? Ancora: per quale motivo se un documento simile, realizzato in vista della seconda ondata, è stato caricato tranquillamente caricato online sul sito dell’Iss, l’esecutivo non fa un’operazione verità e divulga al grande pubblico anche quel misterioso dossier di febbraio?
Se siamo ancora qui a parlare del “piano segreto” anti-Covid lo si deve in larga parte proprio alla cortina di fumo alzata da Conte, Speranza e soci. Manca solo una settimana all’udienza al Tar del Lazio che dovrà decidere se “condannare” (o meno) il ministero della Salute a rendere noto il “piano”. Ma i contorni della vicenda sono ancora fumosi. Le prime notizie sull’esistenza del documento risalgono ad aprile, quando Urbani, direttore della Programmazione al ministero e membro del Cts, rilascia un’intervista al Corriere dove per smentire “vuoti decisionali” nella prima ondata rivela che “già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano secretato e quel piano abbiamo seguito”. Le rivelazioni, come noto, provocano un pandemonio. E sebbene quel dossier non abbia all’interno chissà quale segreto di Stato, sulla sua natura si stenderà una nebbia fittissima che ancora oggi fatica a diradarsi: il ministro Speranza lo derubrica a banale “studio”; il dicastero lo spaccia per l’analisi realizzata dal ricercatore Stefano Merler; e quasi nessuno ci capisce un fico secco. Chiamato di fronte al Tar, viale Lungotevere Ripa 1 assume una curiosa strategia difensiva: affermare che tutto sarebbe sorto da “erronee interpretazioni delle dichiarazioni rese” da Urbani, ribadire che il testo di cui tanto si parla è solo lo studio di Merler e assicurare che non esiste alcun “piano”.
IlGiornale.it, grazie ad informazioni riservate, è in grado però di ricostruirne nel dettaglio la nascita, la crescita e l’inconsistente difesa del ministero della Salute. Partiamo dall’inizio. Il 22 gennaio Roberto Speranza annuncia la nascita di una task force ministeriale. Il virus è ancora solo una lontana malattia cinese. Alla riunione partecipano i vertici del ministero, i carabinieri del Nas, esponenti dello Spallanzani, l’Umsaf, l’Aifa, l’Agenas e pure un consigliere diplomatico. Durante i lavori della task force, dirà il ministero in una nota, emerge “la necessità di elaborare, a cura della direzione Programmazione del ministero della Salute, dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’INMI Spallanzani, uno studio sui possibili scenari dell’epidemia e dell’impatto sul Sistema sanitario nazionale, identificando una serie di eventuali azioni da attivare in relazione allo sviluppo degli scenari epidemici, al fine di contenerne gli effetti”. La prima versione di questa analisi, stando alla nota, viene presentata al Comitato tecnico scientifico il 12 febbraio per poi essere “successivamente aggiornata fino al 4 marzo”. Un “lavoro di studio” che avrebbe contribuito “alla definizione delle misure e dei provvedimenti adottati a partire dal 21 febbraio, dopo la scoperta dei primi focolai italiani”.
Le date coincidono. Come ricostruiro nel Libro nero del coronavirus (leggi qui), il 12 febbraio infatti Merler presenta al Cts le sue analisi contenute nel dossier dal titolo Scenari di diffusione di 2019-nCov in Italia e impatto sul sistema sanitario, in caso il virus non possa essere contenuto localmente. Lo stesso giorno, come si legge nei verbali, il Cts dà mandato a un gruppo di lavoro interno di “produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di Piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov”. Questo dossier viene citato nei verbali altre volte: il 24 febbraio, il 2 marzo (quando viene adottato nella sua “versione finale”), il 4 e il 9 marzo. È lo stesso Cts a chiedere la massima riservatezza. Il ministero, come si legge nella memoria depositata al Tar, ritiene che il “piano secretato” citato da Urbani sia lo studio di Merler e che “detto documento non è un piano pandemico approvato con atto formale del ministero della Salute né un atto elaborato da una P.a., né è detenuto dal ministero”. Tanto che per mostrarsi diligente di fronte ai giudici riesce a farsi inviare dal Cts lo studio Merler e a depositarlo agli atti. Bella mossa.
Peccato che lo studio di Merler e il “piano segreto” siano due cose ben distinte. Una fonte accreditata del Giornale.it assicura che nella relazione di Merler del 12 febbraio non si parlava affatto di “piano” bensì di soli numeri, di casi di incidenza in base a diversi possibili Rt calcolati sulla base dei dati cinesi. Indici, indicatori e previsioni di impatto sulla popolazione. È insomma solo la parte “epidemiologica” di un lavoro ben più complesso. Quello realizzato dalla squadra del Cts (composta da una decina di persone) invece è un’altra cosa, visto che all’interno vi sono una serie di azioni da intraprendere in base ai vari scenari ipotizzati. In gergo si chiama “preparedness”. Si tratta di attività preventive, con un orizzonte temporale di un anno, pianificate a puntino nella (vana) convinzione che Covid-19 possa arrivare nell’arco di qualche mese. Così non è stato.
Il ministero può dire di non aver nulla a che fare con il “piano” realizzato dal Cts? Non proprio. Del gruppo infatti fanno parte tra gli altri anche l’Iss, Urbani con tutti i suoi collaboratori, il delegato delle Regioni Alberto Zoli e un esponente dello Spallanzani. È soprattutto grazie alle pressioni dei dirigenti del ministero se il gruppo di lavoro si mette all’opera e produce in breve tempo un dossier di circa 40 pagine. Non solo. Il 20 febbraio la prima bozza del “Piano” viene presentata, con tanto di slide, da Merler e Zoli direttamente al ministro Speranza. Che dunque dovrebbe conoscere bene, almeno nel titolo, la differenza tra lo studio del ricercatore e il piano presentatogli quel giorno.
Dopo che cosa succede? Come detto, il Cts cita il “piano” nei verbali il 24 febbraio, scrivendo che deve essere “ancora completato”. Ormai è tardi: il contagio ha già raggiunto la Lombardia e Dpi, respiratori e stock vari mancano come l’aria. Si può fare poco, nonostante il “piano” appena redatto: quello prevede la risposta a focolai divampati nel corso del tempo, non una moltiplicazione dei casi di tipo pandemico (come accade a febbraio). Il plico comunque il 1 marzo plana sulle scrivanie degli esperti in busta chiusa con la bollinatura della Presidenza del Consiglio dei ministri. Chiunque lo abbia tenuto in mano, sia come bozza che nella verisione finale, è chiamato a rispettare un patto di riservatezza. Perché? Secondo alcuni, i numeri contenuti all’interno avrebbero fatto trasalire chi si aspettava di cavarsela con un quadro molto più modesto di quello previsto. Ricordate il “siamo prontissimi” di Conte e Speranza? Bene. Comunque, nessuno degli esperti viola l’accordo, tranne Urbani che il 21 aprile si azzarda a parlarne con i cronisti. Provocando una frittata.
Intanto Speranza ripete più volte che un “piano secretato” non sia mai esistito, e lo derubrica a banale studio. Ai cronisti che lo domandano, il ministero – proprio come farà con i ricorrenti di FdI, Bignami e Gemmato – risponde picche e li dirotta sulla Protezione Civile che a sua volta invia solo l’analisi di Merler. Perché? È difficile che la Salute possa dire di non sapere nulla del “piano operativo” se ha partecipato con i suoi uomini materialmente alla stesura, no? Se nel gruppo di lavoro c’era anche Urbani, come può il ministero affermare di non averne almeno una copia? Come avrebbe fatto a parlarne Urbani se non era coinvolto?
Qui occorre fare una precisazione. Urbani nella sua intervista afferma che il “piano secretato” era pronto dal 20 gennaio, motivo per cui l’avvocatura dello Stato si trincera dietro lo studio Merler, assicurando che a quello il direttore generale della Programmazione faceva riferimento. Qualcuno, anche nel Cts, ritiene tuttavia si sia trattato di un errore di datazione: proprio perché l’analisi di Merler era solo un insieme di scenari, non sarebbe quello il documento che – diceva Urbani – “abbiamo seguito” per contenere il contagio. A battere un sentiero nei primi giorni di infezione sarebbe stato invece il “Piano” presentato il 20 febbraio (non gennaio) a Speranza e poi approvato dal Cts. Anche perché appare difficile immaginare che questo “piano secretato” possa essere nato due giorni prima (20 gennaio) della nascita della task force ministeriale (22 gennaio).
Quel che è certo è che per chiudere la vicenda basterebbe poco. Sarebbe sufficiente pubblicare sul sito del ministero quel plico che i membri del Cts ancora conservano nella busta chiusa. Anche la procura di Bergamo ha indagato sulla questione, sebbene oggi i pm siano più interessati ai risvolti penali dei presunti ritardi sull’aggiornamento del “piano pandemico influenzale”, che però è un’altra storia (leggi qui). Per dipanare la matassa “piano segreto” basterebbe infatti un po’ di chiarezza. In fondo hanno fatto tutto da soli: prima lo tengono riservato, poi rivelano l’esistenza, infine fanno di tutto per chiuderlo nel cassetto. Perché, dopo aver lanciato il sasso, il ministero e il Cts sollevano così tanto fumo per nascondere la mano? Perché spacciarlo per lo studio Merler? Perché non renderlo pubblico? In vista della seconda ondata, peraltro, gli esperti hanno redatto un dossier simile al “piano segreto”: è il famoso documento che contiene i 21 indicatori che oggi colorano le regioni di rosso, arancione e giallo. Se questo è pubblico, perché non alzare il velo pure sul “piano” di febbraio?
il giornale.it