Giulio Tremonti a Pietro Senaldi, il rischio Mes per l’Italia: “C’è un ‘mostro’ nel terzo articolo”
Domani il Parlamento è chiamato ad approvare il Mes. Cos’ è codesto acronimo? Sta a indicare il trattato europeo che dovrebbe salvare gli Stati, i conti, le banche e rimettere in piedi la sanità dei Paesi piegati dall’epidemia di Covid, stando al nostro ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. «È un ogm, un organismo geneticamente modificato» sintetizza invece il professor Giulio Tremonti, europeista vecchio stile, per anni voce autorevole in eurogruppo Ecofin e che nel 2003, durante il semestre italiano di presidenza della Ue propose per la prima volta gli eurobond. Alla vigilia di un voto che rischia di spaccare ulteriormente la maggioranza, l’ex presidente dei ministri del Tesoro del Ppe accetta di rivelare a Libero cosa pensa davvero del Mes.
Previsioni sul voto di domani, professore?
«Come dicono gli inglesi, fare previsioni, soprattutto se hanno per oggetto il futuro, è difficile. Ma per domani è facile: il governo non cade, la legge che lo regge non è quella di gravità, ma quella di inerzia. Se non cade il governo, cade ancora più in basso la credibilità dell’Italia, con un premier che, artefice e vittima di se stesso, volteggia come un acrobata sul suo circo: vota su di un Trattato ma dice che ne vuole un altro, niente male per il leader di un Paese (che è stato) fondatore».
Deduco che il Mes non le piaccia…
«L’idea di un nuovo Trattato è giusta. È questo che si va a votare che è sbagliato».
Cosa non la convince?
«Si dice che il diavolo sta nei dettagli. Nel caso del Mes il diavolo o, meglio, il mostro di Frankenstein sta nell’articolato e nell’allegato, in specie nell’articolo 3 e nell’Allegato III, negli obiettivi e nei criteri che sono assegnati al Mes».
Però nel Mes c’è anche il suo zampino…
«Ne “La Tempesta” di Shakespeare, si dice che “Il passato è il prologo”. E questo è il caso. Ironia della storia, tutto ha avuto inizio proprio con un salva banche. Nella primavera del 2008 nel Regno Unito i risparmiatori facevano la coda agli sportelli della loro banca fiduciaria Northern Rock per ritirare i loro risparmi. Londra aveva varato un suo salva banche e l’Ue si accingeva a varare una procedura per impedirlo, dato che l’intervento dello Stato era considerata un’eccezione vietata rispetto al mercato. Tornato in Eurogruppo Ecofin, rappresentante di un governo che nel suo programma elettorale scritto in marzo aveva previsto l’arrivo di una crisi globale, feci notare l’errore: quella che consideravano una prassi eccezionale da vietare sarebbe diventata una regola necessaria da applicare. E così fu in autunno quando arrivò la tempesta con Lehman Brothers».
E lei come si comportò?
«Nel settembre 2008 scrissi alla Presidenza europea di turno, a Christine Lagarde, una lettera poi divenuta pubblica nella quale si facevano notare due dati essenziali. Primo: nel Trattato Ue non c’era la parola crisi intesa come rottura di sistema, come cambio di paradigma. Il Trattato era concepito e scritto solo in termini positivi e progressivi ma gli accordi internazionali sono come i matrimoni, devono reggere nella buona e nella cattiva sorte, che non era prevista ma stava arrivando».
E la seconda osservazione?
«Dissi che, per gestire la crisi, all’Europa serviva un Fondo. Anzi, ricordo che parlai di più fondi».
Le diedero retta?
«Nelle gotiche notti dell’Eurogruppo la discussione fu profonda, lunga, appassionata. Allora non era ancora possibile modificare il Trattato, ma un Fondo fu comunque costituito con uno strumento giuridico privatistico extra trattato. Il fondo fu incorporato più o meno come un hedge fund con sede in Lussemburgo; la sede che c’è ancora».
Qual è la filosofia politica ed economica alla base del Fondo?
«Eravamo alla fine del privilegio che il G7 ci aveva garantito nei precedenti decenni. Gli Usa diventavano sempre più forti, l’Europa sempre più debole. Fu in questi termini che si disegnò uno schema politico europeo: sopra la serietà dei bilanci pubblici, sotto la solidarietà, in mezzo il Fondo(ESM) previsto come base per l’emissione di eurobond. Ricordo un articolo scritto da me sul Financial Times il 5 dicembre 2010 con Jean-Claude Juncker pubblicato sotto il titolo “Gli eurobond metterebbero fine alla crisi”».
Anche il ministro Gualtieri, allora eurodeputato del Pd era d’accordo. Sul Messaggero, il 20 aprile 2011, vergò un commento titolato: “La spinta di Tremonti per l’Europa del futuro”…». «Un uomo di valore, oggi dalla parte opposta». Poi cambiò tutto…
«Venne l’autunno di Deauville, quando Sarkozy e Merkel enunciarono il principio di equivalenza Stati-mercato. Come sul mercato si può fallire, così possono fallire gli Stati. Ciò che in realtà avevano in mente era evitare il fallimento delle banche tedesche e francesi, troppo esposte a rischio su Atene. Il dramma greco non è stato quello di entrare in Europa, è che l’Europa è entrata in Grecia inondando il Paese in forma irresponsabile di liquidità».
È in questo passaggio che l’Esm, oggi detto MES, perde la propria funzione originaria?
«Non si parla più di eurobond, ma di Troika, ovverosia di commissariamento dei Paesi in crisi di conti. In Italia la Troika non fu necessaria, si erano offerti volontari Monti e la sua salvifica maggioranza. In Grecia l’esperienza fu tragica».
Che cos’ è il Mes oggi?
«Oggi per il Mes si prevedono tre applicazioni: Salva-Stati, Salva-banche, Salva-covid. In Italia si è discusso soprattutto su questa terza opzione, si è auspicata la seconda e il governo ha pensato che fosse possibile ignorare la prima. E questo è stato ed è illogico, perché tutto dipende proprio dal Salva-Stati».
Quindi, se firmiamo il Mes, l’Europa poi potrebbe commissariarci a suo piacimento?
«Basta leggere il Trattato. Articolo 3 e Allegato III. Qui si attribuisce alla struttura del Mes la seguente funzione: ” se necessario per prepararsi internamente a poter svolgere adeguatamente e con tempestività i compiti attribuitigli il Mes può seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei Paesi membri, compresa la sostenibilità del debito pubblico, e analizzare le informazioni e i dati pertinenti. A tal fine il Direttore Generale…”.
Sono le premesse di un arrivo della Troika se i conti del Paese che accede al Mes sanitario sono in profondo rosso…
«Nell’Allegato III si dispone “in ordine ai parametri quantitativi di bilancio”. Ma questi sono scritti riprendendo i numeri del Trattato di Maastricht: 3% sul deficit, 60% sul debito… Considerando che oggi si vota dopo che è stato sospeso il Trattato di Maastricht, è grottesco, ma non casuale, bensì intenzionale, il fatto che quei numeri – sospesi in generale – siano ripresi e debbano essere votati specificamente al servizio di questa opzione».
Però in Italia chi è favorevole al Mes dice che Roma conserverebbe il diritto di veto sull’attivazione del commissariamento…
«Il diritto di voto-veto in questi casi è irrilevante. Nel mondo finanziario nulla è segreto. Ci si mette un attimo a far filtrare un documento che generi il panico sui conti di uno Stato e l’Italia ne sa già qualcosa. È questo il metodo ideale per far scoppiare la crisi finanziaria in un Paese. Non puoi mettere il veto alla crisi che ti arriva addosso, non si tratta quando hai la testa nella bocca della tigre».
Cosa sta volteggiando sulle nostre teste e sul bilancio italiano?
«I mercati finanziari per ora sono in sonno e per fortuna c’è ancora – fino a quando? – la BCE. Ma i numeri sono i numeri e i numeri italiani sono avversi. Si evince dai dati di bilancio scritti dal governo che sul triennio il debito pubblico aumenta di 500 miliardi inclusi – pare – i circa 120 miliardi a debito del Recovery fund. Ne deriva che la velocità di crescita del debito è paurosamente superiore alla velocità di crescita del Pil, anche calcolando gli effetti del “Recovery plan”».
Quindi il destino secondo lei è segnato: l’Europa ci imporrà la Troika grazie al Mes?
«Quando ci sarà e, se ci sarà, la ripresa nel resto d’Europa, emergerà fatale e consueta la criticità del caso Italia. Il segnale partirà proprio dall’interno del Mes. E poi ci sono le altre due application: Salva-banche e Salva-covid».
Cosa ne pensa?
«Sulla prima, perché no? Credo di avere un’idea sul perché e non è un perché italiano. Ma andrebbe bene così, se non fosse che il Salva-banche sta insieme al Salva-Stati con le criticità di cui sopra».
E quanto al «Salva-Covid?
«Il cosiddetto Mes sanitario. Vale quanto sopra e non per caso è lo stesso governo che parla di un pacchetto».
Ma sono soldi che ci arriverebbero subito e senza condizioni…
«È stato detto che non ci sono condizionalità. Non è vero. In ogni caso, anche se non ci sono condizionalità sugli investimenti sanitari, sull’uso dei soldi che riceviamo, esse restano sulla loro restituzione. Su questo non bastano le lettere di conforto della Commissione, resta ferrea la lettera del Trattato, che dà l’ultima parola agli Stati. Forse è più divertente il Sassoli-pensiero, che sul punto auspica una modifica del Trattato, da governativo a comunitario. Per ora nel caso di “comunitario” c’è ben poco».
L’impegno della Ue di darci i 209 miliardi circa del Recovery plan sono stati un successo politico dell’Italia, come dice Conte?
«Non è proprio così, dato che il calcolo è fatto in base alle difficoltà dell’Italia. In ogni caso, se c’è stato un successo è quello della Spagna che ha ottenuto 170 miliardi ma è solo il 60% dell’Italia».
Però il Recovery Fund è finanziato con eurobond, dovrebbe farle piacere...
«Però stavolta l’emissione di Eurobond presuppone nuove risorse proprie, da trovare o con altre, improbabili, imposte europee, o con probabili maggiori contributi italiani al bilancio europeo, e così gli 80 miliardi di prestito a fondo perduto scendono a 40. Questo è il primo punto su cui dovrebbe riflettere la cabina di regia».
Sarà inevitabile una patrimoniale per trovare i quattrini?
«E di quanto dovrebbe essere? Di 100 miliardi? Fanno più o meno 5 o 6 punti di debito in meno. Di duecento miliardi? Fanno 10 punti di debito in meno. Sui mercati sono numeri irrilevanti, per gli italiani sono numeri devastanti: salterebbero i “Ratios” su cui si fondano i bilanci delle banche e delle assicurazioni. Se c’è un modo sicuro per avviare una recessione e impoverire i risparmiatori, è proprio questo. E poi il patrimonio degli italiani non è fatto solo da liquidità. Se la patrimoniale colpisce gli immobili, li deprezza sul mercato e li rende invendibili. Significa che l’imposta patrimoniale verrebbe pagata vendendo porte e finestre di casa. La patrimoniale ricorda una delle leggi sulla stupidità umana: “Lo stupido fa male agli altri senza fare bene a sé stesso”».
La voglion le èlite finanziarie
«Dato che nel bilancio dello Stato c’è da anni la voce delle dazioni volontarie, peraltro deducibili, com’ è che su quella voce il saldo è ancora a zero?».
Quale soluzione suggerisce allora per risolvere i nostri guai?
«Due pilastri: la BCE finché c’è, e il risparmio degli italiani, che è ancora pari al 70% del debito pubblico. Se non si parlasse di patrimoniale e ci fosse un governo capace di raccogliere la fiducia degli italiani, potrebbe essere ripetuta l’esperienza del grande prestito nazionale lanciato nel dopoguerra da Einaudi. Su questo Togliatti, Guardasigilli nel governo ebbe a scrivere: “Il prestito darà lavoro agli operai, gli operai ricostruiranno l’Italia”».