Uccise e fece a pezzi Pamela: confermato ergastolo per Oshegale
“Non ho ucciso Pamela… Non giudicatemi per il colore della pelle”. L’ultimo appello del pusher nigeriano Innocent Oseghale non è servito a persuadere i giudici della Corte di Assise di Appello di Ancona che oggi hanno confermato la sentenza di primo grado e quindi la condanna all’ergastolo con isolamento diurno.
La prima condanna
La prima verità giudiziaria sulla fine di Pamela Mastropietro è stata scritta dalla Corte di Assise di Macerata lo scorso 29 maggio. Dopo cinque ore di camera di consiglio, i giudici riconoscono Innocent Oseghale responsabile di tutti i capi di imputazione contestati. La condanna è esemplare: l’ergastolo e diciotto mesi di isolamento diurno. Per le toghe “non esiste nessun ragionevole dubbio” sulla dinamica di quella maledetta mattina.
L’imputato, si legge nelle motivazioni depositate circa sei mesi dopo la condanna, ha abusato “delle condizioni di inferiorità” della vittima allo scopo di consumare “un frettoloso rapporto non protetto” nella mansarda di via Spalato. Sulle cause del decesso, invece, i giudici escludono “ragionevolmente la morte per overdose”. La vita di Pamela è stata interrotta da “due coltellate vibrate dall’imputato”. Due fendenti al fegato, sferrati per evitare che, “una volta ripresasi completamente”, la ragazza “si allontanasse e lo potesse persino denunciare”.
Dopo aver “appagato il proprio istinto sessuale e ucciso”, il nigeriano “si allontanava tranquillamente da casa” per recapitare droga a un cliente. Oseghale consumerà “il bestiale scempio” sul cadavere di Pamela solo qualche ora più tardi, con “freddezza disumana”.
La versione di Oseghale
Lo spacciatore nigeriano ha sempre negato di aver abusato e ucciso Pamela. La mattina del 30 gennaio 2018 era seduto su una panchina dei giardini Diaz, nota piazza di spaccio di Macerata, in attesa di un cliente. È stato allora che, secondo la sua ricostruzione, si sarebbe imbattuto nella diciottenne.
La giovane sarebbe stata disposta a tutto pur di procurarsi una dose di eroina, anche di offrire il suo corpo ad uno sconosciuto. Sarebbero entrati in scena a questo punto Lucky Awellima e Lucky Desmond, i due connazionali che Oseghale contatta per esaudire la richiesta di Pamela. Inizialmente sospettati di avere partecipato all’omicidio, sono stati prosciolti dalle accuse lo scorso aprile. Prima di incontrarli, Pamela e Oseghale si sarebbero appartati in un sottopassaggio degradato del parco di Fontescodella.
È lì, e non in via Spalato, che l’imputato colloca il rapporto sessuale con la diciottenne. In un momento precedente all’assunzione della sostanza stupefacente, quindi, in cui Pamela sarebbe stata ancora capace di intendere e volere. Solo attorno a mezzogiorno sarebbe avvenuto lo scambio di droga, recapitata fisicamente da Awellima e Desmond, e l’approdo nella mansarda degli orrori.
Pamela “iniziò a preparare l’eroina” una volta arrivati nell’appartamento di Oseghale e dopo poco “si è sentita male, è caduta dal letto e ha perso i sensi”. Di fronte al malore della ragazza Oseghale cosa fa? Chiama un amico che gli avrebbe suggerito di dare alla giovane un po’ di acqua, poi esce per incontrare un cliente. “Quando sono tornato a casa lei era già fredda, aveva un colorito molto bianco e le usciva della sostanza dalla bocca”. Preso dal panico, lo spacciatore conferma di avere fatto scempio del cadavere per farlo entrare in due trolley e sbarazzarsene.
“Non giudicatemi per il colore della pelle”
“Non ho ucciso Pamela”. Innocent Oseghale lo ripetuto anche oggi. “Ero sotto choc, confuso, ho fatto una cosa terribile – ha detto in riferimento allo smembramento del cadavere, di cui si è assunto la responsabilità – ma voglio pagare per quello che ho fatto, non per quello che non ho fatto”. E ancora: “Non giudicatemi per il colore della pelle”.
La linea difensiva che punta ad escludere la violenza sessuale e l’omicidio non è cambiata. Anche nel processo che si è celebrato in questi giorni di fronte alla Corte di Assise di Appello di Ancona, i difensori di Oseghale, Simone Matraxia e Umberto Gramenzi, hanno ribadito l’insussistenza del reato di omicidio aggravato dalla violenza sessuale. “In questo processo – sostiene l’avvocato Matraxia – c’era l’esigenza di consegnare un colpevole all’opinione pubblica, a costo di ignorare qualsiasi contraddizione”. Di segno opposto, invece, l’orientamento della pubblica accusa.
Il procuratore generale di Ancona, Sergio Sottani, a margine della requisitoria del pubblico ministero Sergio Napolillo, si è rivolto al giudice Giovanni Trerè chiedendo la conferma della sentenza di primo grado nei confronti dell’unico imputato per la morte di Pamela: “Non vogliamo vendetta, ma un processo giusto e una sentenza giusta. Chiediamo la conferma dell’ergastolo con isolamento diurno perché nessuna attenuante può essere data a questa condotta”.
Pamela Mastropietro? Il caso non è chiuso
Ma c’è qualcosa di più. Qualcosa che si è fatto largo nei sospetti degli inquirenti. Adesso non è più solo la famiglia Mastropietro, rappresentata dall’avvocato e zio della vittima Marco Valerio Verni, a credere che Oseghale non possa avere fatto tutto da solo. La procura generale ha deciso di avocare a sé il fascicolo a carico di ignoti per concorso in omicidio su cui pendeva una richiesta di archiviazione.
Servirà a capire se lo spacciatore sia veramente riuscito a “scuoiare, decapitare, depezzare e disarticolare” il corpo della giovane senza l’aiuto di nessuno. Un lavoro chirurgico, eseguito con rapidità e perizia. Difficile che lo possa aver portato a termine un uomo solo in appena tre ore. Oseghale faceva parte di un’organizzazione che lo ha spalleggiato nella condotta criminale? Saranno i carabinieri dei Ros di Ancona a cercare nuove risposte.
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