“O Roma o morte”: 150 anni fa la breccia di Porta Pia che restituì l’Urbe all’Italia
«Ho nell’anima ciò che chiamerei volentieri la Religione di Roma. Per me Roma non è una Città; è il tempio della Nazione». Era il 1867 quando Giuseppe Mazzini scrisse queste parole al patriota Andrea Giannelli. Aveva ragione il genovese: che cos’è l’Italia senza Roma, senza il suo tempio spirituale, senza il centro irradiatore della sua civiltà? E fu proprio nell’Urbe eterna che Mazzini, insieme a un ampio fronte nazionale, diede vita alla Repubblica romana (1849), il primo vero tentativo di porre fine al potere temporale dei papi. Esperienza rivoluzionaria e affascinante, era però politicamente acerba. E infatti non durò molto. Ma da lì alla breccia di Porta Pia, ormai, non mancavano che 20 anni.
Una Chiesa italiana, ovvero il grande equivoco
La Chiesa si era presa il potere temporale con una truffa: la donazione di Costantino, un falso smascherato dall’umanista Lorenzo Valla. Lo perderà con un atto di forza. Quello dei bersaglieri del neonato Regno d’Italia, che apriranno la famosa breccia a Porta Pia. A livello militare, nulla di trascendentale, ovviamente. Ma a livello politico, simbolico, anzi sacrale, la presa di Roma aveva tutto il valore del mondo. Fu la fine di un grande equivoco: benché situata al centro della Penisola, per secoli la Chiesa aveva vanificato ogni tentativo di riunificare l’Italia. Cominciò al tempo dei Longobardi, quando il pontefice chiamò Carlo Magno, finì chiamando il generale Oudinot per rovesciare la Repubblica romana. In quegli scontri morì un giovane poeta di 21 anni. Era Goffredo Mameli, il garibaldino che, quando l’Italia chiamò, si strinse a coorte con i suoi commilitoni pronti alla morte. E morì. Ma il seme ormai era stato gettato. E il fiore lo coglieranno i bersaglieri agli ordini del generale Raffaele Cadorna.
Dall’Aspromonte a Porta Pia
Dopo secoli di divisioni e occupazioni straniere, gli italiani erano pronti a riunirsi in un unico Stato. E Pio IX aveva anche tentato di porsi alla testa di una federazione dei principi di tutta la Penisola. Ma quando vennero le Cinque giornate di Milano, il pontefice non mosse un dito: del resto, non si poteva mica andare contro la «cattolicissima» Austria. I nodi erano venuti al pettine: la confederazione italica con il papa al vertice, sognata da Vincenzo Gioberti, non s’aveva da fare. Per scelta pontificia, beninteso. Con grande ira dei patrioti, se non vi dispiace. Così facendo, infatti, la Chiesa si poneva fuori da ogni discorso patriottico. L’equivoco era finito. Il potere temporale anche. Era solo questione di tempo.
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Dopo la fine della Repubblica romana, Garibaldi ci provò più volte, ma fu fermato prima all’Aspromonte (1862) e poi a Mentana (1867). Il suo motto «o Roma o morte» sembrava dovesse pendere verso la seconda opzione. Non sarà il Generale a ridare Roma all’Italia. Non sul campo di battaglia, perlomeno. Ci volle la vittoria prussiana a Sedan per far crollare l’ultimo bastione a difesa del Papa Re. Tolti di mezzo i francesi, mangiapreti con Robespierre, baciapile con Napoleone III, la strada verso la capitale era ormai spianata. E sul «tempio della nazione» poté finalmente sventolare il tricolore. La bandiera di tutti gli italiani, ormai risorti come nazione al loro destino storico.
Valerio Benedetti