I nuovi barbari
Calci, pugni e gomitate. E sangue, tanto sangue. È la notte tra il 5 e il 6 settembre scorso quando a Colleferro, zona dei Castelli Romani, scoppia una lite. Willy Monteiro Duarte, un ragazzo nato a Roma da una famiglia capoverdiana, sta tornando a casa con alcuni amici quando, in lontananza, assiste al diverbio.
Tra i volti sfigurati dall’ira riconosce anche quello di un suo amico. Si avvicina, cerca di fare da paciere (“smettetela, così vi fate male“), ma non c’è nulla da fare: la lite si trasforma in rissa. Succede tutto in una frazione di secondo: Willy crolla a terra. Poco alla volta, mentre il branco infierisce su di lui, il sangue comincia ad appicciarsi sui suoi vestiti. Non riesce a reagire: non può fare nulla per salvarsi. I suoi presunti aggressori, infatti, sono campioni di Mma (arti marziali miste): sanno come e dove colpire per fare male. Forse anche per uccidere. Willy non ce la farà: nonostante l’intervento dei carabinieri, morirà poche ore dopo in ospedale.
I presunti colpevoli della morte del giovane sono quattro, tutti di età compresa tra i 20 e i 26 anni: Mario Pincarelli, Francesco Belleggia e, infine, Marco e Gabriele Bianchi. Capelli colorati, tatuaggi, catene e orologi d’oro e un culto per il corpo portato all’estremo. Il tutto condito da espressioni da gangster di periferia: “La vita in ginocchio fatela fà a l’altri”, “Non cambio per nessuno, ma sarò migliore per chi lo merita!”, “Essere maledetto mi benedice”. Un canone estetico orrendo, figlio di idee peggiori. In una parola: barbaro.
Il nuovo barbaro, scriveva Ortega y Gasset ne La ribellione delle masse (1929), coincide con l’uomo massa: “Si trova circondato da strumenti prodigiosi, da medicinali benefici, da Stati previdenti, da diritti comodi. Ignora, viceversa, quanto sia stato difficile inventare quelle medicine e quegli strumenti e assicurare per l’avvenire la loro produzione; non si rende conto di quanto sia instabile l’organizzazione dello Stato, ed è un miracolo se sente dentro di sé qualche obbligo. Questo squilibrio lo falsifica, lo vizia alla radice del suo essere vivente”. Così i “briganti di Artena”, come sono stati ribatezzati gli aggressori di Willy. Non sanno che i loro costosi telefoni sono frutto di tecnologie sempre più complesse; non sanno che la luce ha un costo e che il prezzo del carburante dei loro costosi Suv dipende da ciò che avveiene nel mondo. Giovani che, in poche parole, se ne fregano di ciò che accade attorno a loro. Prima i tatuaggi, l’Mma e il divertimento. Il resto si fotta.
Sulla Treccani, Riccardo Chiaberge declina all’attualità il concetto di barbaro espresso da Ortega y Gasset: l’invasione verticale dei barbari non viene da fuori, ma dall’interno della nostra stessa società: i nuovi barbari, infatti, “parlano la nostra stessa lingua, sono figli nostri: figli degeneri, esseri primitivi sbucati all’improvviso dalle viscere stesse della società europea. Uomini-massa privi di cultura e di coscienza individuale, portati ad agire in branco e a cadere facile preda di demagoghi e tiranni”. L’articolo, scritto cinque anni fa, descrive con pienezza i presunti aggressori di Willy.
Energumeni che hanno colpito con violenza inaudita un giovane che era la metà di loro. Ragazzi che non sanno, e forse nemmeno possono comprenderlo, che la forza può essere un valore, se ben gestito. È quello che ha fatto l’Occidente nel corso dei secoli, almeno fino a quando non ha deciso di abdicare dal suo ruolo civilizzatore. Da sempre, infatti, all’interno della società ci sono elementi che sognavano la violenza, che desideravano lo scontro e la guerra. Ma si è sempre cercato di gestirli. Ed è così che la violenza fine a stessa è diventata forza. È così che bande distruttrici si sono tramutate in falangie legioni. È così che si sono costruiti gli imperi. È così che un gruppo di uomini a cavallo si è trasformato nel più formidabile esempio di educazione: la cavalleria.
Tutto iniziò quando tutti coloro che ruotavano attorno ai castelli cominciarono a fidarsi – e spesso anche ad accettare le angherie – di signorotti soddisfatti e arroganti che però avevano dallo loro la forza. Il popolo sapeva che, nel momento del bisgono, sarebbero stati proprio quei signorotti a scendere in campo con lancia, spada e cavallo per difenderli. La nobiltà divenne quindi un dovere prima ancora che un diritto. E doveva esser riconquistata ogni giorno in punta di spada. Scrive Ortega y Gasset: “I privilegi della nobiltà non sono originariamente concessioni o favori, ma, al contrario, sono conquiste. E in principio, il suo mantenimento presuppone che il privilegiato sarebbe capace di riconquistarle a ogni istante, se fosse necessario e se qualcuno gliele contendesse. I diritti privati, e privilegi non sono, dunque, possessione passiva e semplice godimento, ma rappresentano il limite a cui arriva lo sforzo della persona. Invece, i diritti comuni, quali quelli dell’uomo e del cittadino, sono proprietà passiva, puro usufrutto e beneficio, dono generoso del destino con cui ogni uomo s’incontra, e che non corrisponde a nessuno sforzo. Io direi, allora, che il diritto impersonale si possiede, e quello personale si sostiene”. L’uomo nobile, prosegue Ortega, si distingueva – e si dovrebbe distinguere ancora oggi – per i doveri: “Per me, nobiltà è sinonimo di vita coraggiosa, posta sempre a superare se stessa, a trascendere ciò che è, verso ciò che si propone come dovere ed esigenza. In questo modo, la vita nobile rimane contrapposta alla vita volgare o inerte, che, staticamente, si reclude in se stessa, condannata a una perpetua immanenza, dato che una forza esteriore non la costringe ad uscire fuori di sé. Da qui la ragione di chiamare ‘massa’ questo modo d’essere umano, e non tanto perché appartenga alla moltitudine, quanto perché è inerte”.
Nobile è stato Willy quando, vedendo un amico in pericolo, è sceso dall’auto per difenderlo con il buon senso (“smettetela, così vi fate male”). La violenza come extrema ratio, tipica dell’Occidente. Una cosa che i suoi aggressori, novelli barbari, non possono nemmeno comprendere.
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