Il lockdown è veramente servito per fermare il coronavirus?
È il 9 marzo quando Giuseppe Conte, nel corso di una delle sue numerosissime conferenze stampa, trasforma l’Italia intera in una zona protetta. Proprio come la Lombardia e le altre zone rosse delimitate nel Nord del Paese, là dove l’epidemia di Covid ha iniziato la sua discesa lungo lo Stivale. Nel giro di pochi giorni, oltre al divieto degli spostamenti, il governo giallorosso decide di inasprire ulteriormente le misure di sicurezza.
La parola d’ordine è una: contenere l’avanzata di un virus che ha colto tutti alla sprovvista. E che sta provocando migliaia di contagiati e decessi. Inizia così il lockdown dell’Italia, la prima nazione al mondo ad attuare una chiusura completa su tutto il proprio territorio. Una stretta, a ben vedere, ancor più ferrea di quella attuata dalla Cina, che nel momento più critico della pandemia aveva blindato l’epicentro dei contagi, ovvero la provincia dello Hubei e la città di Wuhan.
Ben presto altri Stati imitano Roma, seppur seguendo tempi e modalità leggermente differenti. Dalla Francia alla Spagna, dalla Germania al Regno Unito: tutti si chiudono a riccio nel disperato tentativo di far crollare la curva dei contagi. Una curva che, nel periodo compreso tra febbraio e aprile, sembrava non volesse saperne di frenare. Arrivati al 10 aprile Conte sceglie di prorogare le restrizioni fino al 3 maggio, quindi, gradualmente e con riaperture in due “ondate”, fino al 3 giugno. È solo il 4 dello stesso mese che gli italiani potranno tornare a muoversi e spostarsi liberamente da una regione all’altra.
Il lockdown è stato utile?
Tranne la Svezia, che ha scelto volutamente di contrastare il virus affidandosi al distanziamento sociale e a qualche misura precauzionale neanche troppo rigida, l’Europa si è affidata al lockdown. Al di fuori del Vecchio Continente troviamo Paesi che hanno sposato la quarantena, altri che si sono affidati a zone rosse limitate alle aree più a rischio e altri ancora, come ad esempio gli Stati Uniti, che hanno proseguito la loro lotta contro il virus a macchia di leopardo, con importanti differenze da Stato a Stato.
Ora che il momento più critico sembra alle spalle gli esperti hanno stilato le loro considerazioni in merito ai provvedimenti presi dai vari governi. Tra questi spicca un editoriale del Wall Street Journal dal titolo emblematico: “The Failed Experiment of Covid Lockdowns”. Proprio così: il lockdown è stato definito “esperimento fallito“. Gli ultimi dati, si legge nel pezzo, suggerirebbero infatti che tanto l’allontanamento sociale quanto la riapertura non avrebbero determinato una maggiore diffusione del Covid.
L’analisi è stata fatta prendendo come esempio gli Stati Uniti. Qui il blocco dell’economia, con la chiusura di ristoranti e molte altre attività, non sarebbe riuscita a contenere la diffusione del coronavirus. Non solo: la conseguente riapertura non avrebbe provocato una seconda ondata di infezioni.
Una risposta sorprendente
Il blocco delle principali attività commerciali è molto costoso dal punto di vista economico e, a lungo andare, provoca serie conseguenze sulla salute pubblica dei cittadini. Oltre alla perdita di numerosi posti di lavoro. Detto altrimenti, la società non riceverebbe alcun beneficio dalla chiusura delle attività. In base ad alcuni calcoli effettuati dalla società di analisi TrendMacro, inoltre, si evincerebbe addirittura che il lockdown sarebbe correlato a una maggiore diffusione del virus.
Nel senso che gli Stati con blocchi più lunghi hanno dovuto fare i conti con focolai di Covid più grandi. Gli esempi arrivano da New York, District of Columbia, Michigan, New Jersey e Massachisetts. Sembrerebbe che l’unico fattore davvero rilevante nel conteggio dell’aumento dei casi sia l’intensità dell’uso del trasporto pubblico di massa. Certo, tutto questo è stato rilevato nel territorio americano. Però, guardando anche al caso svedese, una correlazione statistica simile potrebbe essere importante in vista di future ed eventuali emergenze.
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