Di Matteo inchioda Bonafede: “Le scarcerazioni segnali a boss”
“Nel 2018 ricevetti la telefonata del ministro Bonafede per assumere la direzione del Dap o in alternativa per prendere il posto di direttore generale degli Affari penali. Bonafede mi disse che aveva pensato a me o come capo del Dap, e mi fece capire che la nomina avrebbe prodotto effetti immediati, o come direttore degli Affari penali. Questo secondo incarico mi sarebbe stato attribuito in un secondo momento se la dottoressa Donati avesse rinunciato a questo incarico per un altro. Più volte nel corso della telefonata il ministro mi ha detto ‘Scelga lei’, me lo ha ripetuto almeno tre volte. Io chiusa la telefonata, non ho avuto alcun dubbio ad accettare il Dap”, ha raccontato il consigliere del Csm Di Matteo. “Non ho mai chiesto né sollecitato alcunché. Io sono stato cercato, ho ricevuto una precisa proposta. Non ho mai cercato qualcuno e perorato l’assegnazione di un incarico”, ha sottolineato.
Di Matteo ha spiegato di aver chiesto al ministro 48 ore di tempo per pensare alle offerte, ma Bonafede premeva per tempi più brevi. “La mattina dopo la telefonata mi recai al ministero e dissi subito che accettavo l’incarico del Dap. Con sorpresa, il ministro cominciò a dire che l’incarico al Dap era sì importante ma prevedeva competenze che non avevano in fondo a che fare con la mia esperienza. Insistette perché accettassi invece l’incarico agli Affari penali. Mi parlò di aver pensato al dottor Basentini per il Dap”, ha continuato Di Matteo. “Il giorno dopo sono tornato al ministero e ho detto a Bonafede: ‘Non tenga assolutamente in conto nessuna mia disponibilità per gli Affari penali. Non sono disponibile’. Lui insistette più volte e poi mi disse: ‘Dottor Di Matteo, La prego di rifletterci perché per quest’altro incarico non ci sono dinieghi o mancati gradimenti che tengano'”. “Io – ha aggiunto -non mi sono mai sognato di chiedere al ministro cosa fosse accaduto in quelle 22 ore”, dalla proposta al primo incontro al ministero.
“Io ci sono rimasto male per quell’improvviso dietrofront, ma non ho mai detto niente – ha ammesso il consigliere del Csm -. Non volevo, nonostante fosse per me incomprensibile il comportamento del ministro, rischiare di delegittimare il suo ruolo e quello del capo del Dap”. ”Se avessi avuto elementi per ritenere che il ministro avesse cambiato idea perché indotto dai mafiosi lo avrei detto subito. Mi sono fatto l’idea di un ministro che determinate dinamiche della lotta alla mafia non era in grado di valutarle bene. Questa è una mia opinione”, ha aggiunto Di Matteo sottolineando che “se avessi avuto prova dell’esistenza di un reato sarei andato in procura il giorno dopo”. La toga ha anche ribadito di aver parlato, nella prima telefonata avuta con Bonafede, della nota del Gom in cui venivano riportate proteste di detenuti al 41 bis relative alle voci di una sua possibile nomina al Dap.
Poi alcune gocce hanno fatto traboccare il vaso. “Sono successe alcune cose che mi hanno indotto a parlare: c’erano state centinaia di scarcerazioni di detenuti per mafia, avevo saputo dai media della circolare del 21 marzo, erano intervenute le dimissioni del dottor Basentini, iniziavano a filtrare le voce di un incarico alla mia persona come capo del Dap. Io ho continuato a non parlare e Bonafede ha scelto Petralia”. Poi ha aggiunto: “Penso che le scarcerazioni di mafiosi siano stato un segnale devastante dal punto di vista simbolico, e che purtroppo, dal punto di vista mafioso, viene letto come cedimento, come speranza”.
E così si è arrivati allo scorso 3 maggio quando Di Matteo è intervenuto nel corso della trasmissione Non è l’Arena. “Ho ritenuto di raccontare la verità e non me ne sono pentito – ha affermato -. La vicenda non è solo personale ma diventa istituzionale nel momento in cui il ministro nel giro di 22 ore fa dietrofront facendomi intendere che per il ruolo di capo Dap aveva ricevuto dei dinieghi. A chi e a che cosa non è compito mio saperlo, lo può dire solo il ministro Bonafede”.
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