Il ruolo di Mani Pulite: così la sinistra preparò la scalata al potere con un patto con i pm
Il giudice è nudo. La magistratura sta vivendo una sorta di nemesi della storia. Non è più un potere sacro. La dignità si sta offuscando, l’autorità perde peso.
È quello che è già successo ai partiti, al Palazzo, alla politica. Li vedi come sono, senza corona e senza scettro. Da vicino. Le intercettazioni creano questo effetto. Dissacrano. Ti spogliano, ti svelano, ti mettono in piazza e mostrano il retroscena del potere. Quando questo accade le mani non appaiono mai pulite. Non è questione di colpa o di innocenza, ma di come racconti quello che accade. La nemesi è appunto questa.
L’inchiesta di Mani Pulite lascia aperta una domanda. Fu un caso o dietro c’era un canovaccio, una sceneggiatura? Le conseguenze politiche si conoscono: la Repubblica dei vecchi partiti spazzata via. Un terremoto, con la prima scossa che arriva con l’arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio 1992, un lunedì. Solo che qualcuno già sapeva come si sarebbe sviluppata la storia. Ci aveva scommesso su, un vero e proprio all inn, da veggenti o da bari. Avevano puntato tutto sulla rivoluzione delle toghe. Solo il finale non si avvera: l’anomalia Berlusconi scompiglia le carte.
È quello che racconta Fabio Martini in alcune pagine di Controvento, la vera storia di Bettino Craxi (Rubettino). Il Pci non c’è più. Il nome è stato seppellito dalla caduta del muro di Berlino. Il resto però è sopravvissuto, il partito comunista ha solo cambiato l’insegna, ora si fa chiamare Pds e in realtà non se la passa benissimo. La storia gli soffia contro. Occhetto e il suo gruppo dirigente si affanna per capire come sopravvivere. L’unica strada sembra quella di ritrovare riparo sotto i compagni socialisti, guidati da un personaggio che molti di loro considerano un brigante, l’antitesi di Berlinguer. Occhetto parla apertamente di un partito unitario della sinistra. Bettino sta già aprendo le porte. Le difficoltà sono tante, ma per mesi sembra l’unica strada. Poi non se ne fa nulla. È il novembre 1991, tre mesi prima di Tangentopoli. Ecco cosa racconta Martini. «Gerardo Chiaromonte (uno degli ex comunisti che teneva un canale diretto e costante con Craxi) viene ricevuto in via del Corso e dopo i preliminari va al sodo e rivela: sappi che abbiamo fatto una riunione riservata a Botteghe Oscure e la linea, di Napolitano e mia, del dialogo con te è stata sconfitta ed è prevalsa quella dell’opzione giudiziaria. Chiaromonte esce, entra Giusi La Ganga, Craxi gli riferisce e chiede: ma cosa ha voluto dire Gerardo? Come fanno a adottare una linea giudiziaria? Racconterà anni dopo De Michelis: nessuno ci ha badato. Non avevamo capito che il Pds sapeva qualcosa in più e si stava preparando a incassare».
D’Alema racconta: «Eravamo come una grande nazione indiana, chiusa tra le montagne e una sola via d’uscita, un canyon, e lì c’era Craxi. Come uscire da quel canyon?». Questo qualcosa in più è il filo rosso che, da allora fino a oggi, segna il rapporto tra politica e giustizia. Il «partito dei giudici» non è la magistratura. È una missione. È l’idea che la politica non solo va salvata dai suoi peccati, ma ha bisogno di «sacerdoti» che svolgono un ruolo di garanti morali. La stessa democrazia in Italia non va lasciata agli istinti degli elettori. Non è chiaramente un programma. È un sentimento. È la visione di chi si sente dalla parte giusta della storia. È sfiducia verso gli italiani. Solo che adesso il giudice è nudo. Chi controllava i controllori? Nessuno. E questo è un problema che non si può più ignorare.
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