Palamara e le chat con i colleghi magistrati: “C’è anche quella mer.. di Salvini, ma mi sono nascosto”
“C’è anche quella merda di Salvini, ma mi sono nascosto”: è uno spaccato vergognoso e imbarazzante quello che emerge nelle chat di Luca Palamara con alcuni colleghi magistrati su Whatsapp.
Conversazioni fra toghe, spuntate ora, grazie a uno scoop de La Verità, nell’inchiesta della Procura di Perugia sul pm romano Luca Palamara. Che, di fronte ai dubbi espressi da alcuni colleghi per l’attacco giudiziario sferrato contro Salvini dalla magistratura agrigentina per il caso degli immigrati sulla nave Diciotti, replicava così esplicitamente: “Ora bisogna attaccarlo”. Chiarendo così, definitivamente, che certa magistratura non persegue l’interesse della Giustizia, come amano far credere. Ma solamente il proprio furore ideologico.
Un tempo si parlava di “toghe rosse“. E l’Associazione Nazionale magistrati, il politicizzatissimo sindacato di cui Palamara, oggi indagato, è stato presidente, si sollevava, indignata, come un sol uomo giurando e spergiurando la propria equidistanza di giudizio.
Ma a leggere ora quelle chat segrete fra alcuni magistrati c’è da restare allibiti per la violenza verbale espressa contro Salvini. E per l’ottusa furia ideologica. Che faceva, appunto, dire a Palamara, parlando con l’ex-presidente dell’Anm, Francesco Minisci, esponente di Unicost, la corrente centrista, ed ex-pm del pool antiterrorismo romano: “C’è anche quella merda di Salvini, ma mi sono nascosto”.
C’è da chiedersi quale serenità di giudizio potessero avere certi magistrati nel pieno delle loro funzioni se, poi, nel privato, si esprimevano in questa orrenda maniera contro Salvini. E dichiaravano, sprezzanti, le proprie posizioni ideologiche da perseguire con ogni mezzo.
Ruotano tutte attorno alla figura di Luca Palamara – salito agli onori delle cronache quando venne strapazzato pubblicamente in televisione da Cossiga che lo definì “faccia da tonno” – le chat su Whatsapp dei magistrati finite ora in pasto all’opinione pubblica.
E se c’è qualcuno che ammette, onestamente, rivolto a Palamara “siamo indifendibili, indifendibili”, molti altri schiumano nelle chat tutto il loro imbarazzante odio. Stillando veleno e ideologia. Come se fosse la cosa più normale del mondo per dei funzionari dello Stato. Che dovrebbero – dovrebbero – essere equilibrati e, distaccati e sereni.
“Mi dispiace dover dire che non vedo dove Salvini stia sbagliando”, ragiona pacatamente, rivolto a Palamara, il suo ex-collega romano Paolo Auriemma. Divenuto, poi, capo della Procura di Viterbo.
E’ l’estate del 2018. E i due stanno parlando dell’offensiva giudiziaria della Procura di Agrigento scattata contro Salvini dopo che l’allora ministro dell’Interno ha bloccato lo sbarco degli immigrati dalla nave Dicioti.
“Illegittimamente si cerca di entrare in Italia. E il ministro dell’Interno (Salvini, ndr) interviene perché questo non avvenga – riflette Auriemma. – E non capisco cosa c’entri la Procura di Agrigento. Questo dal punto di vista tecnico, aldilà del lato politico. Tienilo per te ma sbaglio?”.
La replica di Palamara è sconcertante e sgradevole: “No, hai ragione. Ma ora bisogna attaccarlo”. Detto da un magistrato, perdipiù uno dei più potenti d’Italia all’epoca ed ex-capo dei sindacalisti in toga, è agghiacciante. E lascia capire che la definizione “toghe rosse” è solo un eufemismo.
Auriemma sembra non volersi arrendere alla pervicacia ideologica del suo interlocutore. E rivolto a Palamara rincara la sua convinzione sulla campagna giudiziaria della Procura di Agrigento contro Salvini: “Comunque è una cazzata atroce attaccarlo adesso.Perché tutti la pensano come lui. E tutti pensano che ha fatto benissimo a bloccare i migranti che avrebbero dovuto portare di nuovo da dove erano venuti”.
Non c’è solo, nelle parole del capo della Procura di Viterbo, un convincimento tecnico ma, anche, una valutazione di opportunità. Perché il rischio è che la magistratura, già in pesante crisi reputazionale e di consenso, si trovi isolata dall’opinione pubblica.
“Indagato per non aver permesso l’ingresso a soggetti invasori – rileva Auriemma – Siamo indifendibili. Indifendibili”.
Una posizione di buon senso che si rintraccia anche nelle parole di un altro interlocutore di Palamara.L’ex capocentro della Direzione Investigativa Antimafia di Catania, Renato Panvino. L’amico poliziotto che Palamara – così dicono le carte dei magistrati di Perugia – incaricò di acquistare un anello per un’amica.
Panvino, che non risulta indagato, dice, rivolto all’amico Palamara: “Io credo che rafforzano Salvini così…”. E il pm romano: “è una cosa complessa…sarà, comunque, un casino”. Lasciando capire che l’iniziativa della Procura di Agrigento non è propriamente un atto tecnicamente giustificabile.
Ma sono molti i magistrati che restano impigliati nelle chat Whatsapp con Palamara. Che si fa inviare sul cellulare dal consigliere di Cassazione, Giovanni Ariolli, le sentenze del processo a Umberto Bossi e all’ex-tesoriere della Lega, Francesco Belsito.
Dalle carte dei magistrati di Perugia che indagano su Luca Palamara emergono gli scambi di mesaggi con Bianca Ferramosca, componente della giunta esecutiva dell’Anm, che rivela a “Luca mio” come, nel Comitato del Direttivo centrale delle toghe qualcuno abbia osato dare ragione a Salvini. Una specie di bestemmia in chiesa, par di capire.
Il riferimento è ad Antonio Sangermano, uno dei pm del processo Ruby. Che la Ferramosca accusa di fronte a Palamara di aver osato perorare “una linea filogovernativa sul Dl Sicurezza”.
Quella di Palamara e di altri magistrati contro Salvini e la Lega appare proprio un’ossessione.
Ma la questione riguarda, in realtà, tutto il Centrodestra.
“Io dovevo andare contro Berlusconi” confida Palamara a un amico nel periodo in cui, assieme al pm romano, Giuseppe Cascini, oggi consigliere di Area, la corrente di sinistra della magistratura, guidava l’Associazione nazionale magistrati.
Forse il periodo più conflittuale dell’Anm nei rapporti con l’esecutivo.