Venti di guerra (fredda) nei mari
Le potenze si muovono, anche se il coronavirus impone una sorta di grande nebbia sui movimenti delle rispettive forze. Segnali, avvertimenti, manovre di riequilibrio? Sicuramente una miscela di tutti questi obiettivi. Quello che è certo è che se il mondo si è fermato per la pandemia, questo non significa che Cina, Russia, Stati Uniti abbiano bloccato le loro rispettive strategie. Che non sono certo estranee anche alle offensive e controffensive diplomatiche sorte con l’epidemia mondiale.
Nei giorni scorsi gli Stati Uniti hanno completato un’operazione estremamente interessante, che lancia un messaggio chiarissimo sulla nuova strategia del Pentagono per l’Atlantico. I cacciatorpediniere Uss Donald Cook, Uss Porter e Uss Roosevelt e la fregata britannica Hms Kent, con il supporto della Usns Supply, hanno fatto il loro ingresso nel Mare di Barents “per affermare la libertà di navigazione e dimostrare una perfetta integrazione tra gli alleati”. Non è una decisione di portata minima: era dagli anni Ottanta, in piena Guerra Fredda, che le navi della flotta Usa non facevano capolino nelle gelide acque tra Norvegia e Russia, a “poche” miglia da Severomorsk, base della Flotta del Nord della Marina di Mosca.
La Marina americana ha notificato il primo maggio al ministero della Difesa russo l’inizio delle operazioni “per evitare percezioni errate, ridurre i rischi e prevenire escalation involontarie”. Ma perché solcare ora le acque di Barents in un momento di crisi internazionale e di forte confusione geopolitica e in un momento in cui Donald Trump ha Xi Jinping nel suo mirino e non Vladimir Putin, con cui anzi ha voluto celebrare (telefonicamente e in via epistolare) sia il 75esimo anniversario della Vittoria sia il ricordo della battaglia dell’Elba.
La realtà è che la strategia militare sfugge ai singoli momenti della politica. Washington in questo momento ha la flotta del Pacifico in una fase di stallo a causa della pandemia, ma non per questo ha dimenticato i suoi obiettivi incentrati sulla “freedom of navigation”. Obiettivi che si traducono nella volontà di evitare che le rotte commerciali più importanti siano considerate sotto il predominio assoluto delle potenze che vogliono a loro volta imporra la propria sovranità su determinate aree marittime.
La Cina, insieme all’Iran, è per gli strateghi americani il vero nemico di questa dottrina made in Usa. E le operazioni di questo ambito sono da sempre molto frequenti nel Pacifico occidentale e, da pochi mesi, nei pressi dello stretto di Hormuz. Il Pentagono forse ha voluto inviare un segnale nel mare artico perché ora impossibilitato ad operare apertamente nel Pacifico. Soprattutto in un momento in cui con la flotta quasi ferma per via della pandemia, la marina cinese ha dimostrato tutta la sua attività tra Mar Cinese Meridionale e Taiwan.
Ma non va sottovalutato anche il confronto diretto con la Russia: perché se per Trump non è un nemico strategico, questo non vale per la Difesa americana, allevata per decenni nel solco della tradizione dei due blocchi. E sono molti gli ufficiali e alti ufficiali cresciuti nell’eterna sfida tra Washington e Mosca: vero e proprio pilastro della strategia navale americana per l’Atlantico.
La scelta del mare di Barents ha quindi un profilo politico, ma anche un chiaro significato strategico. Il Pentagono sa che le forze navali russe hanno ripreso vigore da molti anni grazie alla “dottrina Putin”. E sa soprattutto che il fronte dell’Atlantico settentrionale vede una netta crescita di attività della flotta russa, tornata ai fasti della Guerra Fredda per qualità di mezzi di superficie e subacquei. Ma non va anche dimenticato che Russia e Stati Uniti stanno trattando a oltranza per la firma di un nuovo trattato Start: tanto che non a caso il ministero della Difesa russo ha voluto ricordare come i tre “destroyers” americani nelle acque del Nord fossero armati di sistemi di difesa missilistici molto efficaci. Segnale che il profilo balistico non è stato per nulla sottovalutato dalle parti di Mosca. Specie se i mari artici sono destinati a diventare navigabili e la Difesa si troverà a gestire un mare non più completamente ghiacciato come nuova frontiera di difesa.
Mosca è rimasta immobile? No di certo. La Marina americana ha inviato le sue navi nelle gelide acque del Nord, ma quella russa effettuato una mossa altrettanto importante nelle acque più calde (e bollenti sotto il profilo politico) del Mediterraneo orientale, rafforzando la propria presenza navale con due nuovi sottomarini che si aggiungeranno all’attuale presenza nella base di Tartous, in Siria. Armati di missili Kalibr, i sottomarini russi arrivano nella regione in un momento estremamente delicato. La guerra in Siria vive una fase di stallo, ma non è ufficialmente finita e Idlib resta ancora un nodo vitale per Damasco e i piani di Putin in Medio Oriente. La Libia sta vivendo una fase di caos in cui quello che doveva essere l’alleato principale di Mosca, Khalifa Haftar, sta perdendo capacitò di leadership e forze militari. Nel frattempo, il Golfo Persico ribolle, con le navi Usa e europee che stazionano davanti alle coste iraniane. Il tutto mentre la pandemia di Covid e la crisi petrolifera destano allarme in tutta la regione.
La presenza russa nel Mediterraneo orientale è un tema di fondamentale importanza sia per Mosca che per la Nato. L’intervento di Putin a favore di Bashar al Assad è nato anche dall’esigenza di far sì che la Russia non perdesse la sua fondamentale base navale nel Mare Nostrum. Ma è una presenza che serve anche per monitorare le mosse europee, turche e americane. Un’utilità che si rafforza soprattutto in questo momento di forte tensione internazionale e con una Cina che ha messo già da tempo nel mirino il Mediterraneo allargato.
Una Cina che sembra ferma al Covid ma che invece sta uscendo dal suo guscio terrestre anche per rimarcare la sua volontà di iniziare a sfidare in modo più aperto le potenze regionali rivali e l’avversario americano. La flotta ha pattugliato costantemente le acque del Pacifico e ha annunciato l’ingresso in attività di due nuovi sottomarini lanciamissili nucleari. Una notizia che ha allarmato parecchio il Pentagono ma anche le Marine della regione dell’Indo-Pacifico. Area dove Pechino ha da tempo dato il via allargamento della propria sfera d’azione e di influenza, tanto che che è notizia di poche ore fa l’annuncio che la Usa Navy ha inviato la Uss Montgomery e la nave da supporto Cesar Chavez in missione con la flotta della Malesia per “tutelare” i diritti minerari di Kuala Lumpur nei fondali delle aree disputate con la Cina. Il mondo non si è fermato davvero.
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