Tamponi per medici e malati. E Zingaretti disse: “No grazie”
Una gestione lenta e incerta. Le carenze che vengono rimproverate al Lazio non sono molto diverse da quelle addebitate alle Regioni più colpite dall’epidemia, con un’aggravante: l’amministrazione guidata da Nicola Zingaretti ha avuto quasi un mese di tempo in più per organizzare una risposta rapida.
Ma ancora l’8 aprile la Regione rispondeva glaciale alla «richiesta urgente» arrivata dalle strutture sanitarie private. Unindustria il 2 aprile aveva spiegato che i laboratori privati accreditati erano «pronti a mettere a disposizione le loro strutture per eseguire i tamponi i test sierologici ai cittadini». Nella risposta arrivata dalla direzione Salute, con sei firme dei dirigenti d’area e ampie citazioni delle indicazioni fornite da ministero e Oms, si fornivano «chiarimenti» sulle «disponibilità ad effettuare a domicilio di eventuali casi sospetti» e sulle «segnalazioni» a proposito di strutture private proponenti «a prezzi esorbitanti test per l’identificazione di anticorpi diretti verso il virus».
La risposta negativa della Regione Lazio viene citata da Antonello Aurigemma, consigliere regionale di Fdi, che ricostruisce la vicenda ricordando come le Rsa locali fossero già allora in allarme per la carenza di diagnosi sugli ospiti e sugli operatori: «Ci sono stati errori, ma qui abbiamo almeno due settimane in più per raccogliere gli alert. La Regione ha risposto alle strutture private che il costo era esorbitante, ma se vogliamo parlare solo dei costi figuriamoci quello di un giorno di terapia intensiva, si tratta di 1.200 euro al giorno, per non parlare delle persone che non ce l’hanno fatta». «Non sono stati fatti tamponi sufficienti al personale sanitario che entrava nelle strutture, molti si sono infettati, e non sono stai fatti agli operatori delle attività di riabilitazione». «Qui siamo ancora su una polveriera – prosegue il consigliere – ci sono Rsa in cui i contagiati arrivano all’80%. E anche le mascherine sono un problema. Le altre Regioni si sono organizzate, hanno magazzini sufficienti, qui la dotazione è molto ridotta. Inoltre non si è tenuto conto affatto del territorio. Le unità territoriali non fanno abbastanza tamponi o si fanno in ritardo, magari per tenere basso il numero dei positivi».
Sul portale della Regione è ancora visibile un avviso in cui, nell’ambito di una ricollocazione di ospiti di case di riposo-focolai, si invitano le Rsa ad accogliere i «positivi» in «strutture o nuclei dedicati». Dalla Lombardia ieri hanno sottolineato come si tratti di un meccanismo molto simile a quello deliberato dalla giunta Fontana, l’unica di cui si è parlato. La giunta laziale ieri ha enfatizzato il requisito della separazione, ma secondo Aurigemma è più teoria che pratica. «A me – dice – risultano strutture promiscue, parlo di ospedali ma parlo anche come di Rsa, come il Nomentana Hospital, in cui sono stati condotti ospiti della casa di riposo di Nerola».
E sul Nomentana Hospital il 29 marzo si è registrata una accorata denuncia congiunta dei segretari generali di Fp-Cgil Roma e Lazio, Cisl-Fp Lazio e Uil-Fpl Roma e Lazio – Giancarlo Cenciarelli, Roberto Chierchia e Sandro Bernardini, che parlavano a due giorni di distanza dal «ricovero urgente dei 52 ospiti della casa di riposo di Nerola, risultati tutti positivi al coronavirus. «Non c’è un minuto da perdere – dicevano – Regione Lazio e Asl Roma 5 intervengano subito o sarà una vera catastrofe per gli operatori e i pazienti ricoverati». E fra i vari casi critici, Cisl Fp Lazio ha denunciato anche il caso di una Rsa romana in cui i lavoratori dovevano utilizzare mascherine monouso per una settimana intera, mentre Cisl e Uil del Reatino cinque giorni fa hanno dichiarato che «la pandemia ha trovato impreparato il Servizio sanitario regionale e l’azienda reatina».
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