“Per loro era solo un’influenza”. Poi l’ecatombe di anziani in Emilia
Li abbiamo contati come numeri, almeno nelle prime settimane. Migliaia di vite perdute nella confusione e nell’avvilimento di una malattia del tutto nuova. E invece gli anziani uccisi dal virus erano (e restano) persone. Con un nome, una storia personale, dei ricordi. “L’anziano non è un oggetto, alla fine male sopportato, ma un soggetto indispensabile”, ha detto nei giorni scorsi l’arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, provando a restituire loro quella dignità dimenticata tra centinaia di cartelle sanitarie, test mai effettuati e qualche errore di valutazione.
Già, perché mentre le telecamere dell’attenzione mediatica puntavano senza sosta il Pio Albergo Trivulzio e le altre Rsa lombarde, in altre aree del Paese si ripetevano le stesse, identiche dinamiche. Soprattutto in Emilia Romagna. Centinaia di morti, vite spezzate. Storie cui è stata imposta la parola “fine”.
Per pesare l’entità della strage emiliana basta osservare i numeri. L’Istituto Superiore di Sanità ha avviato un report statistico dedicato al contagio da Covid-19 nelle strutture residenziali e i dati dicono che qui tra febbraio e marzo sono morte 352 persone, cioè il 6% degli ospiti. Il coronavirus ha avuto un ruolo fondamentale nella decimazione, visto che 24 di loro erano “ufficialmente” pazienti Covid-19 mentre altri 152 se ne sono andati con sintomi simil-influenzali. Le statistiche certificano che il 50% dei nonni deceduti nelle strutture socio-assistenziali emiliane mostrava stati febbrili o tosse. È la stessa percentuale registrata in Lombardia, eppure se ne parla molto meno. A questi vanno aggiunti 363 ospedalizzati e altri 150 in regime di quarantena in struttura. Fino al 7 aprile le autorità hanno realizzato appena 508 tamponi per trovare 282 casi positivi. Tradotto: ogni due sospetti, uno viene confermato infetto. Se si proietta il dato sui 3.254 posti totali regionali, l’entità dell’epidemia spaventa.Milano, Pio Albergo Trivulzio al centro delle polemiche (Fotogramma)
Alla casa “Madonna della Bomba Scalabrini” a Piacenza, su 100 ospiti ne sono morti una trentina. “Sono tanti”, racconta tra le lacrime don Andrea Campisi, presidente della fondazione. “Il numero che ha toccato noi e i nostri operatori è completamente diverso da quello che può accadere normalmente in struttura”. A Villa Margherita, uno degli istituti più colpiti del Modenese, è morta anche Anna Caracciolo, operatrice sanitaria di appena 36 anni. Con lei in provincia sono spirati almeno 58 anziani. “A noi oggi risulta che in quella struttura ci siano 33 ospiti positivi e sette persone decedute per Covid-19”, spiega Fabio De Santis, responsabile dell’Fp Cgil locale secondo cui “più del 50%” degli operatori sanitari “è o è stato interessato dal contagio”. Il quadro che emerge è purtroppo più grave di quello fotografato dalle statistiche ufficiali. A Reggio Emilia si contano 160 persone infette sulle 660 ospitate nelle strutture residenziali. A Villa Rodriguez, in uno dei quartieri di Bologna, il 73% degli ospiti ha contratto il virus (53 su 72) e tra i dipendenti solo 21 su 60 sono stati risparmiati. Di casi simili ce ne sono a Sasso Marconi, Rimini, Budrio. All’Istituto Sant’Anna e Santa Caterina, invece, 18 persone sono morte con sintomatologia riconducibile al Sars-Cov-2. Per otto di loro Gianluigi Pirazzoli, responsabile della struttura bolognese, può solo supporre la causa del decesso perché “nessuno ci ha dato delle conferme”. Il coronavirus alla alle fine è questo: colpisce, magari lascia il segno, ma non sempre si fa in tempo a verificarlo con un tampone. Uccide prima di farsi scovare.Un operatore sanitario (La Presse)
Quello che molti si domandano è se si sia fatto abbastanza per salvare la vita ad una intera generazione di emiliani. Il termine più utilizzato è “prevenzione”. “Le case di riposo sono state aiutate come si doveva, proteggendo gli ospiti e gli operatori, fornendo loro tutti i mezzi necessari tempestivamente per garantire la sicurezza?”, si è chiesto monsignor Zuppi in un insolito affondo contro le autorità regionali. Alla Casa residenza “Il Melograno” di Borgonovo Val Tidone, sulle colline di Piacenza, la struttura si è mossa in “autonomia” e solo così è riuscita ad evitare una strage. Il racconto lo fa una operatrice che chiede l’anonimato. La chiameremo Silvia: “Noi siamo stati abbastanza bravi, perché contrariamente a quelle che erano le prime linee guida che ci consigliavano semplicemente di lavarci spesso le mani e di mantenere le distanze, noi il 23 febbraio abbiamo blindato la struttura”. Purtroppo si tratta di una mossa singola, mentre l’intero sistema nei primi giorni sembrava brancolare nel buio. “All’inizio ci veniva comunicato che si trattava poco più di una influenza pesante – conferma Pirazzoli – Questo ci ha lasciato un po’ impreparati. Noi non abbiamo avuto nessuna segnalazione finché tutto non è scoppiato”.Il governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini (La Presse)
Se da giorni non fate che leggere inchieste sul Trivulzio, sappiate che in Emilia la tetra canzone suona con lo stesso identico ritornello. Le mascherine vietate per non spaventare i pazienti? È successo anche qui. La scarsità di dispositivi di protezione? Pure. Gli operatori mai sottoposti a tampone? Stessa storia. E anche in terra di Bonaccini, così come in Lombardia, alcune strutture hanno accolto pazienti postivi al Covid-19 nonostante possa sembrare un po’ come inviare Dracula in un centro Avis.
Torniamo ai giorni più caldi dell’epidemia, quando l’8 marzo la giunta lombarda chiede alle Rsa di accogliere alcuni pazienti per alleggerire il peso sul sistema sanitario, sommerso da infetti e con le terapie intensive al collasso. Si tratta di una scelta contestata da molti e che è finita al centro di un’indagine della procura meneghina. Si può capire. Nello stesso periodo, però, anche in Emilia alcuni ospedali inviavano nelle residenze persone con sintomatologia Covid-19 nell’ultima parte della quarantena o allo stadio conclusivo della malattia. A rivelarlo al Giornale.it è don Andrea Campisi: “Nelle ultime settimane abbiamo dato questo supporto, accogliendo 5-6 persone che, una volta terminato l’isolamento, torneranno a casa”.Una donna anziana con la mascherina (La Presse)
La musica non cambia neppure sui dispositivi di protezione. “Le prime indicazioni che ci sono state date – racconta Silvia – ci dicevano che la mascherina non andava messa se non in caso di contatto ravvicinato con una persona positiva al coronavirus”. Di istruzioni di non indossare i Dpi “per non allarmare i familiari” ne parla anche il sindacalista della Cgil modenese. Ed è possibile sia avvenuto altrove. Mariacarla Setta, che all’interno dell’Istituto Sant’Anna a causa del Covid-19 ha perso la madre, punta il dito contro la mancanza di strumenti adeguati a salvaguardare ospiti e personale: “Questi poveri Oss, infermieri, persino una dottoressa, si sono contagiati perché non avevano nessuno strumento di protezione. Usavano gli stessi guanti e andavano da un anziano all’altro, infilando in bocca le mani per dare loro le pillole”. La struttura nega, ma va detto che in Emilia le protezioni per i dipendenti, un po’ come in tutta Italia, per diverse settimane sono arrivate col contagocce. “Nelle strutture si è registrato, e si registra tuttora, un problema legato ai Dpi – spiega De Santis – La situazione non è uguale in tutte le residenze, ma in alcuni centri per anziani c’è un problema evidente di approvvigionamento per via dei costi della competizione”. Quando arrivano, sono poche. “Ogni due o tre giorni ci viene mandata dall’Asl la fornitura di Dpi – racconta Silvia – Noi siamo circa 75 operatori socio-sanitari e 20 altri dipendenti tra infermieri e fisioterapisti, ma riceviamo di volta in volta circa 50 mascherine, una cuffia monouso e tre flaconi di gel”. Troppo poco, così per sopravvivere occorre arrangiarsi. “Se avessimo dovuto basarci sulle consegne, sarebbe stato sicuramente più difficile”. Pirazzoli è tranchant: “La regione è stata latitante: abbiamo sentito tanti proclami, ma di mascherine cominciamo a vederne solo ora”.Al Policlinico Sant’Orsola di Bologna si testano le mascherine (Fotogramma)
Il problema è che quando le mascherine mancano, il personale rischia di ammalarsi e di diventare una fonte inestinguibile di contagio. Servirebbe realizzare tamponi preventivi o uno screening di chi entra in contatto con gli anziani, ma neppure qui è stato fatto. “Io da almeno due settimane sento dire che la regione Emilia Romagna intende fare una prova a tappeto con i tamponi”, racconta Silvia, “ma finora non è andata così”. Intanto come in un domino i sanitari si ammalano e rischiano di infettare i degenti. Poi quando mostrano i primi sintomi devono restare a casa lasciando le residenze senza personale. All’Istituto Santa Caterina e Sant’Anna in certi momenti si è arrivato anche ad una carenza del 35% del personale. Una ferita “che ha reso difficile questa battaglia”, spiega Pirazzoli che in cuor suo sperava si potessero avviare “tamponi a tappeto”. Ma nessuno finora si è mosso in questa direzione. A dire il vero la regione avrebbe annunciato test seriologici per gli operatori sanitari, “ma sono passati 20 giorni e ancora siamo al punto di partenza”. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. In fondo anche quando ci sarebbe stato il bisogno di sottoporre a tampone gli anziani febbricitanti che iniziavano a “desaturare e ad andare in apnea”, la procedura si è dimostrata farraginosa. “Fino al 23 marzo non abbiamo avuto la possibilità di realizzare i tamponi – racconta Pirazzoli – Ciò che siamo riusciti a fare qui è stato grazie all’aiuto di medici validi che da noi restano 24 su 24”. Altrimenti? “Temo che qui sarebbe stata un’ecatombe”.
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