Coronavirus, gli Stati del G7 chiedono 3.200 miliardi alla Cina: il prezzo da pagare per l’epidemia
Presto, prima che termini la pandemia, la Cina sarà sul banco degli imputati per rispondere della diffusione del Covid-19. Che sia chiamato a comparire presso una corte internazionale come quella dell’Aja o a difendersi davanti a un tribunale speciale come a Norimberga, il governo di Pechino dovrà affrontare una richiesta di risarcimento per 350 miliardi di sterline. A tanto ammontano i danni calcolati dalla Henry Jackson Society, un centro studi britannico, nel suo rapporto di 44 pagine dal titolo eloquente: Compensazione da Coronavirus? Stabilire la potenziale colpevolezza della Cina e le vie di un’azione legale pubblicato ieri.
CAUSA PILOTA
Si tratterebbe di una causa pilota, alla quale potrebbero fare seguito quelle relative ad altri Paesi occidentali. Il Regno Unito ha registrato finora oltre 52mila contagi, ma stando ai dati di ieri la Germania supera già i 100mila, la Francia si avvicina con 93mila, la Spagna è oltre quota 135mila e l’Italia ne conta più di 132mila, senza parlare degli Usa, in testa alla triste classifica, che hanno superato i 350mila casi. Una stima prudenziale, anche se la curva epidemiologica scendesse, porta a decuplicare la cifra. O anche a centuplicarla, visto che gli Stati del G7 per affrontare l’emergenza del Covid-19 hanno adottato misure per 4mila miliardi di dollari. Per non dire che si tratta di una tragedia umanitaria dal costo incalcolabile. Qualcuno prima o poi dovrà pagare.
Si annuncia una lunga battaglia, in realtà, poiché la vicepresidente della Corte Internazionale di Giustizia è la giurista cinese Xue Hanqin, per un caso curioso docente di giurisprudenza proprio a Wuhan, il centro della pandemia. La reazione più probabile del potentissimo segretario del Partito Comunista cinese Xi Jinping è un rifiuto della giurisdizione dell’Aja. Occorrerebbe quindi trovare una strategia alternativa, che indichi una violazione dei diritti umani. Numerosi studiosi del diritto, nelle settimane scorse avevano indicato il fondamento giuridico di un’azione legale contro i responsabili di una condotta che ha provocato un enorme numero di morti e il tracollo dell’economia globale.
ACCORDI VIOLATI
Negli Stati Uniti, il ricercatore James Kraska ha preso in esame il Regolamento sanitario internazionale emanato dall’Organizzazione mondiale della Sanità, adottato nel 2005 proprio a causa della censura di Pechino, concludendo che proprio la Cina ha contravvenuto agli obblighi di comunicazione entro 24 ore agli altri Stati membri delle informazioni inerenti la Sars e malattie «provocate da un nuovo sottotipo» del virus». In realtà, a far le spese della censura imposta dietro la Grande Muraglia sono stati per primi i cinesi. È per questo motivo che è partita una campagna internazionale che punta a rinominare il morbo: non più «virus cinese», ma «virus del Partito Comunista Cinese», più preciso e offensivo solo nei confronti di chi lo merita.