Covid, ora la letalità è al 18%: il mistero della Lombardia

C’è un dato che colpisce più degli altri, nella battaglia quotidiana dell’Italia contro il coronavirus. Ed è il tasso di letalità osservato in Lombardia. La Regione guidata da Attilio Fontana si è involontariamente trovata ad essere l’epicentro dell’epidemia italiana e ne sta pagando il prezzo: 9.202 morti dall’inizio del contagio e oltre 51mila casi.

Ogni dieci pazienti diagnosticati, ne muoiono due. Un’ecatombe, se si considera che l’epidemia rischia di allargarsi a Milano dove nell’ultima settimana si contano 100 morti al giorno. Tre volte sopra la media.

Molti in queste ore si stanno chiedendo come mai il tasso di letalità di Covid-19 in Lombardia sia quasi il doppio che nel resto del Paese. Innanzitutto va detto che il “tasso di letalità” si riferisce al numero di morti sul numero di malati di una certa malattia entro un tempo specificato. Uno dei problemi di questo dato, come spiegato ieri sul Giornale.it, è che è quasi sicuramente sovrastimato a causa dell’enorme numero di contagiati da coronavirus che le autorità non riescono a registrare. Secondo alcuni studi, in Italia ci sono da 1,4 a 7 milioni di persone già infette, ma asintomatiche o paucisintomatiche: il denominatore sottostimato falsa la percentuale della letalità, dunque è un dato da prendere con le pinze. Inoltre, anche il numero di decessi comunicato ogni giorno dalla Protezione Civile tende ad avere una certa instabilità, visto che non tutti i morti avvenuti in questo mese vengono certificati Covid-19. Il virus uccide, ma in molti casi nessuno se ne accorge: secondo una ricerca Istat, confrontando i decessi del 2019 con quelli del 2020, si registra nei mille Comuni analizzati un incremento del 100%. Il doppio.

Resta comunque l’anomalia lombarda. Il tasso di letalità medio in Italia è del 12,5%, mentre in Lombardia la percentuale sale al 17,9%. Cinque punti in più. Ma se si considera solo il resto delle regioni, escludendo le province lombarde, la letalità nazionale è del 9%. Dunque appena la metà di quella della Regione locomotiva del Belpaese.

Qualcuno ha provato a dare una spiegazione a questi dati, anche se ancora nessuno è in grado di metterci una mano sul fuoco. Secondo gli accademici Carlo Favero, Andrea Ichino e Aldo Rustichini uno dei motivi potrebbe nascondersi dietro la “carenza di posti in terapia intensiva rispetto alla domanda”. L’analisi, pubblicata su LaVoce.info, esamina due scenari: il primo, quello attuale, in cui la Regione sconta un limite massimo di respiratori; il secondo, “ipotizza invece una capacità di 3 mila posti in terapia intensiva per l’intera Regione, quindi un numero ragionevolmente superiore a quello che sarebbe stato necessario per soddisfare la domanda”. Dal grafico (guarda qui) si evince che “il numero di decessi avrebbe potuto essere largamente inferiore” se ci fossero state più terapie intensive disponibili sin da subito.

Va detto che la Lombardia ha fatto una sorta di miracolo per raddoppiare in pochi giorni i letti disponibili, che a inizio emergenza erano 724. Ne è la dimostrazione il nuovo polo costruito in tempi record in Fiera. Ma è possibile che durante la prima ondata, quando l’intero Paese era impreparato, i medici siano stati costretti a scegliere a chi assegnare un respiratore e chi lasciar morire? Possibile. A dirlo non c’è solo l’ormai famoso documento della Siaarti, rivelato dal Giornale. Ma pure le dichiarazioni di alcuni medici impegnati in prima linea. La Lombardia, peraltro, è stata colta di sorpresa e ritiene di pagare anche l’incapacità del governo di rispondere nell’immediato alla crisi: sistemi di protezione arrivati in ritardo, mascherine “carta igienica”, l’ospedale in Fiera quasi ostacolato. “Siamo stati investiti da uno tsunami”, ha detto oggi l’assessore Gallera, accusando Conte di aver “lasciato col cerino in mano” il governatore nella gestione della Lombardia come zona arancione/rossa. “È passato ormai quasi un mese e mezzo dall’inizio dell’epidemia e sostanzialmente da Roma stiamo ricevendo delle briciole – diceva Fontana – Se noi non ci fossimo dati da fare autonomamente, avremmo chiuso gli ospedali dopo due giorni”.

In generale, tutta Italia aveva una “preparedness” (capacità di fronteggiare un’emergenza) per il coronavirus inferiore ad altri Paesi Ue, dove la letalità appare più bassa. Secondo i dati Eurostat, nel 2017 la Germania vantava 6,0 posti ogni mille abitanti per la cura dei casi acuti, contro il 2,6 italiano. Lo stesso dicasi per le terapie intensive: all’inizio della crisi Berlino poteva contare su 28mila respiratori (34 ogni 100mila persone). L’Italia solo 12 ogni 100mila. Ma c’è chi, nel governo, sembra voler scaricare le colpe solo sul sistema lombardo.

il giornale.it

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