Italia Eterna: lo Stellone e l’Italia turrita, i due simboli immortali della nazione
- Dodicesimo capitolo di Italia Eterna, lo speciale del Primato sulle origini della nostra nazione. Le puntate precedenti: i Longobardi, la Disfida di Barletta, Dante e Petrarca, Emanuele Filiberto e Carlo Emanuele di Savoia, Gian Galeazzo Visconti, Federico II di Svevia, Il Regnum Italiae di Berengario, Niccolò Machiavelli, Cola di Rienzo, Galeani Napione, Ladislao d’Angiò-Durazzo [IPN]
Roma, 31 mar – Una giovane e bellissima donna che ha come corona una cinta di mura turrite. Questa in sintesi l’iconografia dell’Italia turrita, la personificazione nazionale dell’Italia. A questi elementi essenziali si aggiungono spesso una cornucopia, e sopra la corona, una stella. La stella è la “Stella d’Italia”, proprio lo stellone, quello che fa bella mostra di sé nell’emblema della Repubblica Italiana, sovrapposto alla ruota dentata, quell’ingranaggio simbolo del lavoro e che sembra strizzare l’occhio a un’iconografia da socialismo reale.
Più antichi del tricolore
Pochi sanno che l’emblema nazionale disegnato dall’artista Paolo Paschetto (1885-1963), fu scelto solo dopo un secondo concorso volto a privilegiare proprio il tema del lavoro. Il primo concorso, che aveva visto vincitore lo stesso Paschetto, vedeva al centro dell’emblema nazionale proprio la corona turrita sormontata dalla stella d’Italia. Eppure l’emblema vincitore fu presto oggetto di scherno, venendo definito “tinozza” (non sono noti i dettagli, ma è facile immaginare da che parte politica iniziò la campagna). L’Italia turrita sopravvisse solo in una longeva serie di francobolli, nota come “Siracusana”, stampata fino al 1977, per poi essere dimenticata. E così oggi, a livello iconografico, l’Italia ha perso quella corona turrita che assieme allo stellone rimane uno dei simboli nazionali più antichi.
Più antichi in senso assoluto, non soltanto a livello di concezione dell’idea moderna di “stato nazione”. E a livello simbolico la personificazione allegorica dell’Italia mostra un uso quasi ininterrotto dai tempi di Roma, a significare come l’idea di Italia sopravviva ai secoli e alle dominazioni straniere. E questo alla faccia dei semicolti che continuano a considerare l’Italia come l’arcinota “espressione geografica” del Metternich. Un costrutto del romanticismo nazionalista ottocentesco, o “bontà loro” nella migliore delle ipotesi, come riflesso dell’arrivo degli ideali della rivoluzione francese con Napoleone Bonaparte.
L’Italia turrita nei secoli
Se il tricolore nasce a fine del ’700, l’Italia turrita e lo stellone hanno un’origine ben più antica, venendo definitivamente codificati già nel 1603, con l’Iconografia del perugino Cesare Ripa (1555-1620). Studioso delle opere classiche, pubblicò una prima versione della sua opera nel 1593. Questo primo testo era puramente descrittivo, privo di immagini. Il successo fu tale che dieci anni dopo fu pubblicata un’edizione ampliata e integrata con xilographie, in cui tra le immagini compariva anche quella dell’Italia turrita, con la seguente descrizione:
«Una bellissima donna vestita d’habito sontuoso et ricco, la quale siede sopra un globo; ha coronata la testa di torre, di muraglie, con la destra mano tiene uno scettro, overo un’asta che con l’uno et con l’altra vien dimostrata nelle sopradette Medaglie, et con la sinistra mano un cornucopia pieno di diversi frutti et oltre ciò faremo anco che habbia sopra la testa una bellissima stella. Dico dunque che bella si dipinge per la dignità et grande eccellenza delle cose, le quali in essa per adietro continovamente ritrovate si sono et alli tempi nostri ancora si trovano. Si veste d’habito ricco et sontuoso, essendo che in questa nobilissima Provincia si veggono molti fiumi cupi e laghi, dilettevoli fontane, vene di saluberrime acque tanto calde, quanto fresche, piene di diverse virtù talmente prodotte dalla natura, così per il ristoro e conservatione della sanità dell’huomo, com’anche per i piaceri d’esso. Lo scettro, overo l’asta, che tiene con la destra mano l’uno et l’altra significano l’imperio et il dominio che ha sopra tutte l’altre nationi per l’eccellenza delle sue rare virtù non solo dell’arme, ma ancora delle lettere. Il cornucopia pieno di varii frutti significa la fertilità maggiore di tutte l’altre Provincie del mondo, ritrovandosi in essa tutte le buone qualità essendo che ha i suoi terreni atti a produrre tutte le cose che son necessarie all’humano uso. Siede sopra il Globo per dimostrare come l’Italia è Signora et Regina di tutto il Mondo, come hanno dimostrato chiaro gli antichi Romani, et hora più che mai il Sommo Pontefice maggiore et superiore a qual si voglia Personaggio».
Certo, non c’erano gli stati nazione. L’Italia era divisa. Il romanticismo e Napoleone erano di là da venire. Ma colpisce come il Ripa chiuda la descrizione con quel “come l’Italia è Signora et Regina di tutto il Mondo, come hanno dimostrato chiaro gli antichi Romani, et hora più che mai il Sommo Pontefice maggiore et superiore a qual si voglia Personaggio”, in cui mette in risaltò la continuità tra la grandezza di Roma e il ruolo di essere sede del Papato. Come poteva un suddito dello Stato pontificio, a fine ’500, proporre una simile lettura?
L’Italia turrita prima della Marianna
Se l’Italia turrita non è l’unica personificazione nazionale che vede consolidarsi a livello iconografico, visto che nello stesso periodo compaiono sia Britannia, per l’Inghilterra, e Helvetia per la Svizzera, l’Italia turrita è probabilmente la prima che vede un uso continuato nel tempo. Le figure allegoriche di “espressioni geografiche” iniziano a fiorire con l’accresciuto interesse per le esplorazioni, la geografia e, conseguentemente, della cartografia, che diviene così occasione per esercizi allegorici, a partire dalle prime personificazioni che sono quelle dei quattro continenti. Se Helvetia può essere sicuramente ricondotta al contesto geografico-allegorico, la figura allegorica della Svizzera va consolidandosi proprio nel XVII secolo, anticipata inizialmente proprio da personificazioni cantonali. Per Britannia la questione è più sottile, apparendo sul frontespizio del volume General and rare memorials pertayning to the Perfect Arte of Navigation del 1576 del matematico e occultista inglese John Dee, consigliere della regina Elisabetta I, in un periodo in cui le allegorie associate alla cartografia erano ancora agli inizi. Dopo questa prima apparizione, l’uso della Britannia personificata, con un’iconografia che si riallaccia alla personificazione della provincia romana nel primo e secondo secolo, si consolida nella seconda metà del XVII secolo quando inizia ad apparire sulle monete correnti.
Il fenomeno delle personificazioni nazionali verrà definitivamente consacrato quasi un secolo dopo con la rivoluzione francese e l’avvento della Marianna. Ma se le personificazioni svizzere e inglesi in qualche modo sono una creazione dell’Europa cinque-seicentesca basata sullo studio e l’imitazione dell’antichità classica, la personificazione dell’Italia aveva già un vissuto. Anche senza l’attributo della corona turrita e dello stellone, la personificazione allegorica dell’Italia, quando Cesare Ripa ne definisce gli attributi iconografici, era già una presenza costante a livello letterario quanto si trattava di parlare della situazione politica, e dei destini fatidici della penisola. La personificazione letteraria più nota dell’Italia nel medioevo è quella offerta da Dante nel Purgatorio: Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello (Purg. VI 76-78). O quella del Petrarca con l’Italia coperta di piaghe.
Nel segno di Roma
Ma quella dei due poeti toscani non rappresenta certo un’eccezione, e nello stesso periodo c’era già chi faceva uso di personificazione dipinte dell’Italia per fini politici. Fu proprio Cola di Rienzo, il tribuno di Roma, il primo che seppe coniugare in maniera spregiudicata e anticipatrice l’immaginario dell’antica Roma per legittimare le proprie ambizioni politiche. Tra le tante rappresentazioni che il tribuno fece esporre per Roma, si segnala uno degli affreschi al Campidoglio: la personificazione di Roma è rappresenta come donna su una nave sul mare in tempesta a rischio naufragio. A circondarla altre quattro navi già perse tra i flutti, ognuna con la personificazione di una grande città del passato: Babilonia, Troia, Cartagine e Gerusalemme. I cartigli che descrivevano la scena recitavano: «Sopra onni signoria fosti in aitura – ora aspettiamo qui la tua rottura». Ad osservare la scena da tre isole distinte sono altre personificazioni. Su una Prudenza, Fortezza, Giustizia e Temperanza. Sull’altra la Fede, e sulla terza proprio l’Italia con cartiglio: «Tollesti la balìa ad onne terra – e sola me tenesti per sorella». Nella visione politica di Cola di Rienzo quindi un’Italia eterna, al pari delle altre virtù, ma il cui riscatto non può che non ripartire da Roma.
Per Cola di Rienzo azione politica e culturale andavano di pari passo, ma le personificazioni letterarie dell’Italia diventeranno una costante per le cerchie di intellettuali e artisti che si formano alle corti dei principi che auspicano un’unificazione dell’Italia. Nel caso di Gian Galeazzo Visconti, è il vicentino Antonio Loschi, cancelliere del ducato, e “regista dell’azione politica ideologica” del Visconti, a scrivere nel 1388: «Se vedeste la sua immagine, sareste commossi, e direste: Soccorriamo Italia; e andreste in suo aiuto. Vedreste una signora prostrata e lacerata, ma piena di maestà, della gravità del comando, piena di lacrime, piena di dolori, e (cosa che dico più lietamente) di speranza. […] La vedreste esausta di forze, ma non d’animo»[1]. E la speranza viscontea non è descritta in questi termini solo da un personaggio a lui vicino come il Loschi. Simili descrizioni allegoriche dell’Italia si ritrovano nel senese Simone di Ser Dino, Tommaso da Rieti e del padovano Francesco di Vannozzo. Ma Gian Galeazzo Visconti è destinato a rappresentare l’ultimo bagliore di speranza per l’unificazione italiana per molto tempo.
Bella e terribile
Negli anni a venire le personificazioni e le allegorie d’Italia risentiranno di questa situazione. E la donna di bordello finirà per essere non il peggiore dei destini a cui la povera personificazione dell’Italia è destinata. Nel 1514 per Pietro Dovizi da Bibbiena l’allegoria dell’Italia non è più la personificazione di una donna sì bella ma prostrata da una vita di stenti. No, lo spunto per l’allegoria è un “parto mostruoso” in quel di Bologna, un tema, quello di nascituri con significative malformazioni, che diventava interesse non solo per medici, ma a anche di filosofi e veggenti. Nel caso del parto del 1514, si tratta di due gemelli fusi in uno. I due volti separati da una cresta carnosa rossa, che ha la forma di una vulva aperta. La povera creatura diventa così una terribile allegoria: «La terza figura de la vulva voglio esprimere con le lacrime a li ochii, vide licet Italia è diventata questo monstro con li ochii serrati e con due facie che guardano in due diverse parte per la sua divisione, riguardando una parte secondo la afectione et propri commodi a ponente, et l’altra secondo le passioni a tramontana; e cussì divisa et excecata, heu misera!, è diventata un monstro. La vulva aperta in capite è quella patria et provintia la quale si lungamente ha conservato et defeso la beleza, la virginità et pudicitia de la calamitosa Italia; da poi così prostrata et con la vulva aperta, sono venuti a luxuriar et de bacar tanti externi che abbiamo visti in facia; insino a questa hora, ancora invita de li altri più estranei. Et notate bene, che questo monstro nato nel bolognese ha due facie, et per le due boche piglia el latte et nutrimento, el quale descende per uno loco medesimo ne lo stomaco, perché li due visi rispondeno a un collo solo, et il resto del corpo è facto di femmina, ad instar di la povera Italia, de la quale ogni homo fa suo disegno come di femmina e meretrice»[2]. Forse il punto più basso delle personificazioni d’Italia.
Ci vorranno anni prima che la situazione della penisola torni a stabilizzarsi, e nuovi principi sembrano poter ambire allo spirito unificatore che aveva animato quasi due secoli prima gli intellettuali italiani sotto il Visconti. È il caso di Carlo Emanuele di Savoia. È in questo contesto che il modenese Alessandro Tassoni, quello de La secchia rapita, scrive: «La Patria è più che madre, e se non è lecito fare schiava la propria madre per qualunque errore ella commetta, tanto meno è lecito mettere in schiavitù la propria patria per qualsivoglia imperfezione che si vegga nel suo governo»[3]. Mentre il ferrarese Fulvio Testi (1593-1646) scrive nel 1615 il poemetto L’Italia all’invittissimo e gloriosissimo prencipe Carlo Emanuel Duca di Savoia, l’Italia personificata che si rivolge per la prima volta a quella casata, che nel bene e nel male diventerà dirimente per i suoi destini:
L’Italia mi chiam’io son io colei,
ch’ovunque gira il Dio lucido, e biondo,
alzando illustri, ed immortal trofei
tutte cacciai l’altrui grandezze al fondo;
quella son io, che viddi a cenni miei
chino ubbidir, e riverente il Mondo,
e temuta dal uno al altro Polo
formai di tutti i Regni un Regno solo[4].
Lo stellone
Si arriva quindi a quegli anni in cui Cesare Ripa sancisce gli elementi iconografici dell’allegoria d’Italia. Rielaborando elementi che arrivano dall’antichità classica. L’attributo della stella è l’elemento più antico, venendo dall’antica Grecia. Il pianeta Venere, Espero per i greci, è la stella della sera, la stella vespertina, che sorge dopo il tramonto verso occidente. Per i greci quell’occidente è l’Hesperia, il nome da loro dato all’Italia. Ed Enea, figlio di Venere, viaggia verso Hesperia già in una delle prime versioni della caduta di Troia, l’Iliupersis, quella del poeta della magna Grecia Stesicoro vissuto nel VI secolo a.C.
Su questa associazione tra l’Italia e Venere se ne innesta un’altra degli albori della Roma imperiale, ovvero la Sidus Iulium o Caesaris Astrum, la cometa di Cesare apparsa per sette giorni nel 44 a.C. tra il 20 e il 23 luglio, quando Ottaviano Augusto aveva indetto dei giochi in memoria del padre adottivo e in onore proprio della dea Venere. Mentre la personificazione dell’Italia nasce proprio con le guerre italiche, intorno al 91 a.C., quando buona parte dei popoli italici (con l’eccezione di etruschi e umbri) che richiedevano l’estensione dei diritti politici formarono una lega, eleggendo inizialmente come capitale Corfinium (oggi Corfinio, non lontano da Sulmona). Iniziarono anche a battere moneta e qui compare per la prima volta l’Italia personificata come dea con una corona d’alloro, sulla falsariga delle monete romane con la dea Roma (un uso risalente alla Magna Grecia del V secolo a.C.). La moneta coniata a Corfinium, che nel frattempo era stata temporaneamente rinominata Italica, riporta proprio la legenda Italia (o alternativamente Viteliu in lingua osca).
Roma e l’Italia
In qualche modo la dea Italia, ancorché costruita a imitazione della dea Roma delle monete romane, è la prima traslazione dall’idea di città a un ideale più ampio, quello di una confederazione d’alleati. In nuce c’è quasi una primitiva idea di nazione. Un’ipotesi dibattuta, visto che parte degli accademici propende per considerare la moneta Italia solo la moneta della città di Italica, e non quella della confederazione. A togliere ogni dubbio ci pensa un denario dell’89 a.C. dove, per sancire la pace, la dea Roma e la dea Italia si stringono la mano. Su questa moneta compare per la prima volta la cornucopia. E l’attributo della fecondità del suolo diventa presto parte dell’immaginario collettivo. Nel 37 a.C. Marco Terenzio Varrone nel De re Rustica descrive per la prima volta l’insieme delle specialità italiane (olio, farro, vino, frumento) in una prospettiva non diversa da quella di molti interventi contemporanei di Oscar Farinetti.
L’Italia nel volgere di pochi anni cessa di essere quindi l’“antagonista” di Roma, diventandone un elemento complementare. È bene ricordare come l’Italia non sia mai stata “provincia di Roma” ma “Domina Provinciarum”, Sovrana delle Province, un territorio equiparato a quello di Roma. Già nell’Ara Pacis di Augusto, uno dei rilievi, quello noto come Saturnia tellus, può essere interpretato come una personificazione d’Italia sovrapposta all’immaginario della dea Tellus mater, la terra madre. Simili rappresentazioni, ma univocamente associate all’Italia, si ritroveranno con Traiano, ad esempio nell’arco di Benevento. Ma l’attributo principale resta la cornucopia, o l’aratro. L’attributo turrito è invece mutuato da un’altra dea madre, l’anatolica Cibele, un culto che aveva iniziato a diffondersi a Roma già dal secondo secolo avanti Cristo. La corona turrita diventerà prima un attributo usato per la dea Roma, o per le personificazioni di singole città. L’attributo sarà definitivamente traslato con Antonino Pio (86-161), su alcuni denari: sul retro l’Italia assisa su un globo. In mano una cornucopia e in testa una corona turrita, in alcune varianti compare anche una stella in prossimità della fronte. Dalla lega italica sono passati poco più di due secoli e mezzo, e l’allegoria d’Italia ha già preso una forma definitiva destinata a superare i secoli.
Flavio Bartolucci