Lo pneumologo, il virus circolava in Italia già i primi di gennaio: studi sierologici lo confermano
Emergenza coronavirus, nel corso della conferenza stampa della Protezione civile a cui ha partecipato, il professor Luca Richeldi, specializzato in Pneumologia e Malattie Respiratorie, lo ha detto chiaramente. Confermando, tra un’analisi e un nuovo dato, rumors e indiscrezioni in circolazione da tempo. «Ci sono studi sierologici che ci fanno pensare che questo virus circolasse in Italia i primi giorni di gennaio. E abbiamo avuto il primo caso il 20 febbraio». Dunque, come ribadisce lo stesso pneumologo del Comitato tecnico scientifico, all’inizio «eravamo impreparati. Ma non è colpa di nessuno». Un’ammissione autorevole, quella arrivata durante la conferenza stampa alla Protezione Civile, che porta a rimettere indietro l’orologio che data e registra l’inizio dell’epidemia nel nostro Paese.
Richeldi, il virus era in Italia già i primi di gennaio
Certo, oggi, aggiunge Richeldi quest’oggi in conferenza stampa al fianco di Borrelli, «gli ultimi dati fanno pensare che sia stato fermato lo spargimento del virus nella popolazione vulnerabile». Eppure, speranze a parte, quei numeri che ogni giorno asseverano con la veridicità della matematica decessi e contagi, non rincuorano fino in fondo. Specie chi, come medici e infermieri, si trovano alle prese con un’epidemia la cui portata drammatica negli ospedali sembra proprio non trovare riscontro nelle cifre ufficiali. E del resto, anche oggi, a parte il dato dei decessi lievemente in calo, è tornato a crescere quello sui contagi. E di ben 3815 unità…
Il nodo da sciogliere è quello dei vettori di contagio inconsapevoli
E allora, va bene: «Non usiamo il termine untore, perché non è corretto», ha esortato lo stesso pneumologo, direttore dell’Unità di Pneumologia al Policlinico Gemelli di Roma. E concordiamo con lui in merito al fatto che sia «un termine sbagliato. Dispregiativo e terroristico». Ma l’epidemia avanza e i contagi continuano ad aumentare. Tanto che, lo stesso Richeldi, rileva ancora: «Ci possono essere vettori, che senza saperlo possono contagiare gli altri». Cambiando l’ordine dei fattori, insomma, il risultato non cambia. E sempre il professore è costretto ad aggiungere a stretto giro: «È chiaro che eravamo impreparati. Ricordo che questo virus era sconosciuto fino a tre mesi fa»…
Dispositivi e percorsi di protezione incastrati tra tempo e risorse…
Ma oggi? Come spiegare oggi l’endemica crisi di mascherine, specie tra medici e infermieri impegnati in prima linea? «È chiaro – risponde Richeldi – che i dispositivi di protezione individuale sono una base indispensabile per la protezione degli operatori sanitari». Come drammaticamente evidenziato dagli oltre 50 medici morti e dalle migliaia di infettati, ricordati anche oggi in conferenza stampa alla Protezione civile. «Ma negli ultimi tempi gli ospedali hanno attivato percorsi predefiniti che proteggono operatori e pazienti», ha aggiunto lo pneumologo. Anche se, «ciò non toglie che, per chi fa il medico, c’è un rischio non dico calcolato, ma implicito nella professione: si è più esposti rispetto a chi fa un’altra procedura. I dispositivi sono importanti, ma i percorsi lo sono altrettanto». E i percorsi, per essere messi in piedi, «richiedono tempo e risorse». Peraltro, in alcune regioni come la Lombardia e l’Emilia Romagna, sono stati messi in piedi in condizioni di emergenza. Solo dopo aver preso coscienza che, in atto, c’era una vera epidemia. Un nemico strisciante, subdolo e sconosciuto, ancora da combattere strenuamente…