Cremona, nell’ospedale-trincea: “Ogni vittima moriamo noi”
Loro sono lì dietro quel vetro. Forme umane, ma ormai innaturali sospese tra bagliori verdi e bluastri. Morti viventi cullati dall’eco angosciante degli elettrocardiogrammi. Respiri soffocati dal flusso dell’ossigeno sparato negli interstizi polmonari.
Uomini senza più volto, nome ed espressione. Ne vedi solo i piedi. Sporgono da un brandello di lenzuolo posato tra i fianchi e l’intrico di tubi e cavi. Le dita in giù. I talloni all’insù. La pelle diafana del palmo puntata sulla tua faccia. Quasi a raccontarti lo sventurato, grottesco capovolgimento di quel che resta delle loro vite.
Li chiamano i pronati. E non serve altro. In quella parola che fino a tre settimane fa sarebbe suonata strana ed esotica persino per i veterani di questa rianimazione non c’è solo il capovolgimento delle loro esistenze. Non c’è solo l’innaturale sospensione delle coscienze sopite. C’è il ribaltamento delle procedure, delle esperienze e delle certezze dell’ospedale di Cremona, dei suoi medici, dei suoi infermieri. «Siamo obbligati a tenerli così per migliorare il rapporto tra perfusione e ventilazione e recuperare le parti declivi del polmone. È l’unica procedura che abbiamo e malgrado ciò i risultati non sono garantiti», spiega con professionale chiarezza il dottor Antonio Colluccello, direttore di questa rianimazione. Covid-19, viaggio nei reparti di terapia intensiva (prima parte)Pubblica sul tuo sito
Ma per comprendere come quei pronati e il Covid-19 abbiano cambiato l’ospedale bisogna ascoltare Carla Maestrini, la caposala responsabile del manipolo di infermieri che da tre settimane condivide vite e sofferenze con quei trenta inconsapevoli pronati. «Sono qui dal 20 febbraio e continuo a non vedere la luce. Venerdì e sabato sono state giornate terribili. Tanti morti, troppi». Carla parla, un barelliere ci fa spostare. Dal lenzuolo bianco allungato sulla lettiga emergono le forme di un cadavere. Carla volta la testa: «Lentamente tutti questi morti uccidono pure noi. Più passano i giorni più mi chiedo se sono ancora in grado di curare la gente, se la mia presenza qui ha ancora un senso. Me lo chiedo per tutto il giorno, poi la notte rientro a casa e muoio sul divano. Mio marito e mia figlia mi parlano, ma io non li sento. È terribile. Sprofondo in un sonno che non è sonno. Ogni ora mi risveglio tra gli incubi. Penso ai colleghi e ai medici che si sono ammalati e ho paura. Rivedo quei pazienti, temo di finir anch’io a faccia in giù. Ma il peggio è non vedere nessuno di loro risvegliarsi. Quelli un po’ migliorati finiscono in altri ospedali e a noi arrivano altri disperati. Adesso però non ne possiamo più. Abbiamo bisogno di togliere un tubo, di vedere un paziente che si risveglia. Finché non succederà non ritroveremo la consapevolezza di far qualcosa di utile». Covid 19, viaggio nei reparti di terapia intensiva (seconda parte)Pubblica sul tuo sito
Per il direttore sanitario Rosario Canino la sottile linea rossa tra la normalità e lo tsunami è il 21 febbraio. Quel giorno all’ospedale di Cremona arriva la paziente uno. E una ragazza, ha solo 31 anni e da due giorni entra ed esce dal pronto soccorso. Il primo tampone, però è stato negativo. Quando arriva quello buono è troppo tardi. «Tra quel venerdì 21 e domenica 23 ci ritroviamo a combattere con 40 polmonite interstiziali da Covid a fronte di 12 posti letto nel reparto infettivi. Quel giorno capiamo di essere la prima linea, l’avamposto su cui si sta abbattendo la prima grande ondata di Covid. In 12 ore attrezziamo un reparto vuoto, dodici ore dopo ce lo ritroviamo tutto occupato. Svuotiamo due chirurgie, le trasformiamo in reparti Covid e l’onda non si placa. Oggi a parte reparti essenziali come ginecologia e oncologia non abbiamo più niente, solo pazienti Covid. In tutto più di 600 di cui 577 positivi e 30 intubati». Nell’ospedale-trincea di Cremona
In questo piccolo presidio progettato per rispondere alle esigenze di una cittadina di 72mila anime, ma costretto a fronteggiare un flagello mondiale la parola guerra ha da tempo soppiantato termini come epidemia e contagio. E fatto dimenticare tutte le passate esperienze mediche. «Lavoro qui dal 1990 e in tutta la carriera non ho mai visto qualcosa del genere», spiega il primario. «Dopo tre settimane di questo inferno mi sono rassegnato alla consapevolezza che la mia giornata più brutta sarà sempre quella di domani. Ormai siamo soli e nessuno può aiutarci. Tutti gli altri ospedali della zona sono saturi. Tra noi e il Covid si gioca una guerra. Possiamo e dobbiamo vincerla, ma ci costerà ancora molto dolore e molte perdite».
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