Coronavirus, tutti gli errori grossolani della virologa Gismondo. Perché ancora parla?
Roma, 9 mar – “Ora in tanti mi danno ragione. Fra una settimana non parleremo più di coronavirus, ne farò un ciondolo”. Era il 26 febbraio quando Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano, faceva la sua profezia destinata ad essere ricordata allo stesso modo di quelle di Piero Fassino. Sarebbe quasi da chiederle a che punto è oggi il ciondolo. La Gismondo, ricordiamolo, fu il primo alfiere della normalizzazione della situazione, del “tranquilli è tutto a posto” e del “il coronavirus è una semplice influenza”. Divenne “famosa” nei media e nei social quando il 23 febbraio scrisse il noto post in cui diceva “È una follia questa emergenza. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale” chiedendo di abbassare i toni ed entrando in contrasto con il virologo Roberto Burioni che invece invocava misure di sicurezza e prevenzione per cercare di fermare il diffondersi del virus alla radice con metodi anche drastici.
E’ come una normale influenza
Sempre quel giorno la Gismondo riportava il dato – riportato e non verificato da Open, fact checking failed – secondo cui nello stesso periodo la normale influenza stagionale aveva fatto 217 decessi al giorno, contro le dieci del Covid-19. Riportando un dato del tutto fuori dalla realtà, visto che i 217 decessi giornalieri non era un dato che si riferiva ai decessi per influenza ma alla mortalità generale nell’ottava settimana del 2020 . Anche di fronte alla crescita esponenziale di contagi e decessi nell’ultima settimana di febbraio la Gismondo mantenne il punto, arrivando addirittura a dire che il virus aveva una mortalità solamente dello 0,1% (all’epoca come ora i dati parlavano di oltre il 3%) e che i decessi registrati per coronavirus non erano affatto per coronavirus perché “sarebbero morti comunque”. Il tutto facendosi sempre forza sui “dati ufficiali” e sui “numeri” che, però, anche allora dicevano tutt’altro.
Sempre in quell’intervista aveva anche negato che una cifra di pazienti tra il 10% e il 20% finiva in rianimazione. Era il 28 febbraio ma la Gismondo già metteva le mani avanti sostenendo che “i virus cambiano” e che “se mi doveste intervistare fra tre giorni potreste dire che il virus non esiste più così come il virus si diffonde di più”. Due giorni dopo tornava alla carica sul confronto con l’influenza classica, parlando di “ben 300 morti in quattro settimane con cinque milioni di contagi”, numeri che oggi di fronte a quelli del Covid-19 dopo appena due settimane e mezzo dall’inizio del contagio fanno sorridere. Ma già iniziava a parlare di emergenza per la presenza di molti casi critici in pochissimi giorni che avrebbero potuto mettere a rischio l’organizzazione sanitaria.
La Gismondo e il parziale dietrofront
Una volta esplosa l’emergenza e una volta rivelatasi in tutta la sua evidenza la reale pericolosità del virus, ovviamente le è stato chiesto se davvero considerasse ancora il Covid-19 alla stregua di un’influenza normale. “Queste dichiarazioni le ho fatte sempre tenendo in primo piano i numeri, è poco più di un’influenza per quanto riguarda i contagi e la percentuale di morti” ha detto il 4 marzo. Una mortalità tre volte superiore e una contagiosità due volte superiore sarebbero dunque “poco più”. Ma stavolta lanciava seriamente l’allarme sull’organizzazione sanitaria perché il 10% dei contagiati ha bisogno di terapia intensiva (dato negato o comunque ridimensionato il 28 febbraio, appena sei giorni prima). Cosa che, per la cronaca, con un’influenza normale non accade. Dopo essersi giustificata per aver parlato “numeri alla mano” ma che i numeri cambiano, ha poi affermato che i numeri vanno visti in un lungo arco temporale e non di giorno in giorno.
Intervento tardivo anche per colpa della Gismondo
Resta la domanda: perché allora ha parlato nei primi giorni quando i numeri erano ovviamente ancora pochi? E perché ne ha approfittato per far girare la convinzione sia nei media che nelle istituzioni che non ci sarebbe stata nessuna emergenza, che non bisognava prendere provvedimenti e che l’epidemia si sarebbe risolta in pochissimi giorni, diventando uno dei megafoni che poi ha avallato la politica governativa dell’intervento tardivo? E poi da un virologo direttore di uno dei più famosi ospedali italiani ci aspetteremmo qualcosa di più di una fredda analisi dei numeri per cui basterebbe anche uno statistico. In questa sede non mettiamo assolutamente in discussione le capacità della Gismondo, non ne abbiamo minimamente la competenza e siamo anzi sicuri che la direttrice del Sacco, se ricopre quel ruolo, sia tra le persone più competenti, però è indubbio che in tutta la situazione un virologo come Burioni abbia avuto uno sguardo più profondo e fatto una analisi più lucida e che se si fosse dato più retta a lui che non alla Gismondo ora probabilmente non saremmo in questa situazione.
Burioni costretto alle scuse
E questo porta a un altro fatto di una gravità assoluta. Infatti fa pensare il fatto che politici e media all’indomani della querelle tra i due abbiano di fatto costretto Burioni a scusarsi con la collega per averla chiamata in modo irrispettoso come “la signora del Sacco”. Quindi di fronte a una possibile pandemia si è preferito porre l’attenzione sul politically correct e sulla guerra di parole giuste e si è voluto dare ragione alla dottoressa solo perché in quel momento era diventata l’emblema della donna vittima del maschio bullo. Poco importa che avesse ragione il dottore e non la dottoressa. E la Gismondo ha anche cavalcato l’onda buonista – nonostante la sua poca attenzione per le persone che “tanto sarebbero morte lo stesso”… – dichiarando in un’altra occasione: “In un mondo che vuole innalzare muri, la natura ci ha dimostrato che i confini non esistono”.
L’odio della Gismondo per i “confini”
Dichiarazione gratuita, politicizzata e soprattutto pericolosissima che cozza con i numeri perché il virus ha dimostrato che il paese che meno controlla i suoi confini è il primo paese per morti e contagi dopo la Cina e il primo per tasso di percentuale tra contagiati e popolazione, mentre una nazione vicinissima alla Cina come il Giappone, che oltre ad avere confini naturali è anche molto attento a chi entra e che tra l’altro ha da subito preso provvedimenti senza mettersi a fare le pulci alle parole, ha un tasso di contagi tra la popolazione tra i più bassi del mondo. Forse proprio i confini sarebbero potuti dunque servire a contenere l’epidemia, ergo la sua dichiarazione oltre ad essere chiaramente politicizzata risulta anche di una gravità assoluta.
Ma quello che forse dà ancora più fastidio è che dopo aver cercato di negare l’emergenza, dopo aver lanciato appelli alla normalizzazione e dopo aver di fatto contribuito a creare una cappa di ridicolizzazione della paura per il virus e anzi di quasi menefreghismo verso il contagio, la dottoressa Gismondo ci fa ora la morale dichiarando che è “triste vedere giovani senza responsabilità sociale” perché vanno tranquillamente in giro invece di rimanere a casa come richiesto dal governo. Ovvero per lei è triste vedere giovani che fanno esattamente quello che neanche venti giorni fa lei stessa voleva che facessero, senza preoccuparsi di una “emergenza che non esiste”. Sarebbe meglio, forse, se la Gismondo facesse meno apparizioni in tv soprattutto dopo aver preso una cantonata clamorosa sulla gravità del virus. Anche perché, se non abbiamo la competenza per giudicare il suo lavoro da virologa, sicuramente abbiamo la sicurezza che come potenziale politico o personaggio immagine sarebbe un disastro completo.
Carlomanno Adinolfi