Coronavirus, una “falla” all’ospedale di Codogno? L’anestesista sbugiarda Conte
Ricordate quando Giuseppe Conte puntò il dito contro la “gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi”? Il premier ce l’aveva con l’ospedale di Codogno, primo nosocomio che s’è trovato tra le mani un caso di coronavirus.
Le accuse del primo ministro provocò l’indignazione della regione Lombardia e costò la rottura delle relazioni sin lì amichevoli tra Stato e Enti locali nella gestione dell’emergenza. Come spesso accade, l’inciampo è poi finito nel calderone delle notizie superate perché c’è altro a cui pensare. Ma se a sbugiardare nei fatti Conte è l’anestesista che ha “scoperto” Covid-19 sul “paziente 1”, allora le cose cambiano.
Lei è Annalisa Malara, 38enne dottoressa a Codogno che in un‘intervista a Repubblica ha ripercorso quelle convulse ore nel Lodigiano. Tutto inizia il 14 di febbraio, quando Mattia, un giovane atleta in ottima salute, contrae la “solita influenza” che però non passa. “Il 18 è venuto in pronto soccorso a Codogno e le lastre hanno evidenziato una leggera polmonite – spiega l’anestesista – Il profilo non autorizzava un ricovero coatto e lui ha preferito tornare a casa. Questione di poche ore: il 19 notte è rientrato e quella polmonite era già gravissima” Il viavai di Mattia dal nosocomio è probabilmente la causa della rapida propagazione del virus tra medici e pazienti dell’ospedale. Questo è innegabile. Ma la catena di contagi non era evitabile, o almeno non seguendo il protocollo previsto dal governo. Il 38enne infatti mostrava una “polmonite apparentemente banale” e nulla faceva pensare al coronavirus. Per arrivare alla diagnosi, la dottoressa Malara è dovuta “entrare nell’ignoto”. Bisognerebbe lodarla, non accusarla di chissà cosa.
Come rivelato dal Giornale.it, la circolare ministeriale in quel momento vigente (quella del 27 gennaio) forniva infatti disposizioni chiare ai medici in reparto: era da considerarsi un “caso sospetto” di coronavirus solo la persona con una “infezione respiratoria acuta grave” (non Mattia, almeno il primo giorno) che fosse anche stata in “aree a rischio della Cina nei 14 giorni precedenti all’insorgenza” dei sintomi o che avesse avuto contatti con in “caso probabile o confermato da nCoV”. Il 38enne però non aveva dichiarato di aver viaggiato negli ultimi giorni, né di aver incontrato infetti. Per questo non è stato disposto il ricovero coatto, né il tampone. Solo grazie all’intuito della dottoressa Malara si è arrivati alla soluzione del caso. “Ho chiesto un’altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina – spiega – Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo”. Neppure dare il via libera all’analisi è stato semplice. L’anestesista ha dovuto “chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria” e assumersi la responsabilità di realizzare tampone, perché “i protocolli italiani non lo giustificavano”.
Se nel frattempo il virus si è propagato non è dunque colpa di chi veste un camice. Né di una “gestione di una struttura ospedaliera non del tutto propria secondo i protocolli”. Anzi: a sentire le parole della dottoressa, sarebbe proprio colpa di quelle disposizioni se l’infezione non è stata scovata prima: “Verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”. La pensa allo stesso modo anche il primario del Pronto Soccorso, Stefano Paglia, che dà atto alla collega di aver “forzato il protocollo”: “La verità – dice – è che a Codogno, grazie a una straordinaria e anonima dottoressa con qualità cliniche di altissimo livello, l’Italia ha scoperto l’epidemia”. Checché ne dica “Giuseppi”.
il giornale.it