Il disastro della Raggi sui rom
Doveva essere il giusto compromesso tra solidarietà e legalità. Avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta. La soluzione dell’annosa “questione rom”.
Eppure, a quasi tre anni dall’approvazione del “Piano di indirizzo di Roma Capitale per l’inclusione delle popolazioni rom, sinti e caminanti” (era il 31 maggio 2017) il bilancio è impietoso. La Capitale continua ad essere la città italiana dove si concentrano il maggior numero di ghetti e favelas.
Degli 11 villaggi attrezzati e insediamenti “tollerati” inclusi nel Piano, solo il Camping River ha veramente chiuso i battenti. Non senza strascichi e polemiche. Mentre nei campi de La Barbuta, alle porte di Ciampino, e Monachina, in zona Aurelia, che dovrebbero essere smantellati entro il 2020, le operazioni procedono a rilento. È come svuotare il mare con un cucchiaino. Solo il 19 per cento delle famiglie, infatti, avrebbe sottoscritto il “Patto di responsabilità solidale”, aderendo almeno nelle intenzioni al percorso di fuoriuscita dal campo. E nel frattempo si moltiplicano le presenze all’interno delle baraccopoli abusive. A denunciarlo è l’associazione 21 Luglio nel report intitolato “Dove restano le briciole”. Il primo nodo riguarda gli strumenti previsti dal Piano per superare la logica del ghetto. Spetta alle famiglie, a fronte di un contributo erogato dal Comune di Roma (il famoso “Buono casa”), trovare un alloggio alternativo. Impresa difficilissima. Tanto che, dopo lo sgombero del luglio 2018, solo 12 dei 97 nuclei familiari residenti al Camping River hanno avuto accesso ad un appartamento. La gente non si fida. E la storia sembra destinata a ripetersi. A un anno dall’inizio delle attività nel villaggio de La Barbuta, solo 3 agenzie immobiliari su 62 si sono rese disponibili a siglare un accordo di partenariato per la ricerca di alloggi privati.
La debacle continua sul fronte dei rimpatri assistiti. Sempre guardando ai risultati prodotti dallo smantellamento del Camping River, infatti, la misura ha interessato appena 12 nuclei familiari. Ma solo nella metà dei casi il percorso è andato a buon fine poiché “le progettualità abitative e lavorative nei luoghi di destinazione non sono realmente mai partite”, denunciano dalla 21 Luglio. Il risultato? “La maggior parte delle famiglie sgomberate – si legge nel report – si sono in realtà rifugiate presso insediamenti formali e informali della Provincia di Roma”. Un effetto collaterale che questa amministrazione sembra non aver messo in conto. Attualmente sono 338 le baraccopoli disseminate ai quattro angoli della Capitale. Se nel 2017 il numero delle persone censite al loro interno era di circa 1.200 unità, nel 2019 si è registrato un incremento del 66 per cento (+800 unità). Per converso, nello stesso arco di tempo, negli insediamenti formali c’è stato un decremento delle presenze del 27 per cento (-1.245 unità). Incrociando questi dati, quello che emerge non è affatto confortante. Dall’avvio del Piano di marca grillina, solo un terzo delle persone che hanno lasciato i campi formali non è finito a ingrossare le fila dell’abusivismo.
La cosa ancor più assurda, poi, è che la strada maestra per trovare una sistemazione sicura non è neppure annoverata nelle misure varate dal Campidoglio. Si tratta bensì di uno strumento previsto per qualsiasi cittadino in emergenza abitativa, ossia la domanda per ottenere un alloggio di edilizia residenziale pubblica. Nel campo de La Barbuta, ad esempio, sono stati 21 i nuclei familiari assegnatari di una casa popolare, a Monachina uno. “Il successo di tale soluzione abitativa – spiegano ancora dalla 21 Luglio – sta incoraggiando verso questa opzione molte famiglie rom”. Diverso, invece, il punto di vista di chi abita nei quartieri popolari dove approdano i fuoriusciti dai campi. Come dimostra il caso della famiglia Omerovic, “accolta” dai residenti di Casal Bruciato al grido di: “Prima gli italiani”.
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