“Noi italiani in fuga da Tito. Quella fu una pulizia etnica”

“Norma finalmente dorme in pace». È un’immagine di dolcezza che chiude la poesia di Sergio Siberna dedicata alla martire delle foibe.
Norma Cossetto, studentessa padovana, l’ultima a cadere in quel baratro che «sembra l’antro dell’Inferno», la foiba in cui fu gettata – ancora viva – dai «partigiani slavi.

Insieme a lei tanti altri, «inghiottiti dalla voragine giù nel profondo». Furono migliaia, e centinaia di migliaia furono gli italiani costretti alla fuga dall’Istria e dalla Dalmazia. «Norma è la nostra martire – dice – è stata violentata, e non da una sola persona, oltraggiata oltre ogni dire, umiliata e gettata in una foiba». Sergio Siberna ha 91 anni, e ieri proprio a Cinisello Balsamo ha partecipato alla inaugurazione di un giardino dedicato a Norma, assurta a simbolo di quella schiera di infoibati e di quegli esuli italiani, i «migliori fra gli italiani» secondo la celebre definizione montanelliana, che furono cacciati dai comunisti slavi e male accolti anche dai comunisti italiani.

Quando parla di Norma si fa toccante. Ma quando racconta di sé Sergio ormai sorride. «Sono stato fortunato, abbiamo perso solo beni, altri no, hanno perso tutto e alcuni non hanno neanche avuto il risarcimento dovuto».

Lui era fra quegli italiani e tanti ne ha conosciuti. «Sergio Endrigo fu mio compagno al collegio». Cita Ottavio Missoni e Nino Benvenuti che proprio ieri al Giornale ha raccontato la sua storia. «Grandi figure, campioni», dice con orgoglio. E ricorda Enzo Bettiza, firma storica di questo quotidiano, che frequentava il suo liceo. Ricorda con dolcezza, Sergio, che a suo modo è diventato un campione: di pallanuoto nel ’57, e poi ha appena festeggiato 64 anni di matrimonio e si dedica ai nipoti. Non prova rancori e non li alimenta. Ripercorre la sua «storia anomala» partendo dall’8 settembre. Aveva 15 anni. «Abitavamo a Ragusa, l’attuale Dubrovnik, città bellissima, di nome e di fatto italiana, la quinta repubblica marinara, mio padre insegnava in una scuola di italiani. Quel giorno fu «lo sfacelo del nostro esercito. Avevo dei compagni, mi vergognai». Ragusa era sede di un corpo d’armata. «Prima di arrendersi, il comando italiano convocò mio papà, unica persona importante rimasto lì, e lui fedele al suo dovere aspettava un ordine del ministero da cui dipendeva. Gli offrirono di diventare il custode della cassa perché non cadesse nelle mani dei tedeschi, ma mio padre rifiutò, eppure dal 25 luglio non riceveva lo stipendio e avevamo speso i nostri pochi risparmi, e mia mamma insisteva perché tornassimo in Patria e tutto intorno c’erano i partigiani slavi, sapevamo che noi italiani eravamo a rischio». Arrivavano da Trieste e lì volevano tornare. A febbraio chiusero casa e partirono verso Mostar. «Dopo 20 chilometri eravamo già fermi per un allarme aereo in posto chiamato Hum. Trovammo rifugio in quella stazioncina». I cacciabombardieri colpivano e la contraerea tedesca rispondeva: sette incursioni da mattina a sera. «Il nostro treno era in fiamme. Mia madre andrò a recuperare le quattro valigie che avevamo e le trovò sforacchiate dai colpi. Un soldato fu ferito al collo».

Finita l’incursione, la notizia che la linea era saltata. «Il treno tornò a Ragusa a marcia indietro, ma il nostro appartamento era stato occupato, gli alberghi requisiti dai tedeschi, mio padre disperato ci lasciò all’aperto andando a cercare una sistemazione e miracolosamente la trovò: essendo un tipo gioviale incontrò un amico croato, comandante di marina mercantile che proprio quella notte partiva, e ci lasciò la casa, fidandosi anche se noi eravamo tecnicamente il nemico». Passati pochi giorni, nuovo viaggio verso Mostar, che era sotto attacco. Finirono a Zagabria, in un centro raccolta profughi. Poi un nuovo viaggio verso Klagenfurt. «La stazione era stata bombardata, il treno si fermò prima, mio fratello aveva due anni e mezzo, c’era la neve. Attraverso Tarvisio arrivammo in Italia. Ricordo il gesto di mia sorella che baciava la terra, arrivammo infine a Trieste dopo otto giorni di Odissea. Fortunati, rispetto ad altri, che hanno avuto i loro cari infoibati, hanno perso fortune, tutto, soprattutto nelle città italiane, sulla costa, nelle zone ambite. Noi eravamo già Jugoslavia, ma Istria e Dalmazia erano italiane. Quella dei partigiani slavi è stata una pulizia etnica. Tito era un idolo per loro, con noi fu tremendo. E i profughi sono stati trattati molto male dai comunisti italiani. L’equazione era: sei scappato dal comunismo? Allora sei fascista. Ma lei pensa che 350mila persone fossero criminali fascisti? Mio padre non era fascista, era repubblicano. Certo, io ho indossato la divisa da Balilla, come tutti, ero un ragazzino, ma era solo un apparato scenico, non significava nulla per me. Non avrei avuto neanche il tempo di esserlo. Ci sentivamo solo italiani e fieri di esserlo, forse non eravamo critici, ma chi lo era? Chi distingueva l’Italia dal regime?». Sergio era solo un ragazzo che si era slogato una caviglia giocando con compagno, e non aveva grilli per la testa. «Partecipo sempre a queste cerimonie – dice pensando ai giardini Norma Cossetto, dove ieri ha incontrato il sindaco Giacomo Ghilardi e l’assessore Riccardo Visentin. Ripensa a quegli anni. «Avevamo fame, si mangiava pasta e ceci, e poi ceci e pasta». Ha ascoltato le parole del presidente, Sergio Mattarella. «È stato equanime». E ripensa a quegli italiani. «Sergio Endrigo e io fummo compagno di collegio a Brindisi, lo ricordo. Il collegio era stato intitolato a Niccolò Tommaseo, grande dalmata. Tanti di noi ancora si trovano, dopo anni, cantiamo, stiamo insieme».

«Ormai – dice – è passato tanti tempo, e l’esperienza ci ha insegnato quali sono le cose su cui soprassedere, e ci ha insegnato anche a girare pagina. Non dimenticare, no. Ricordare ma senza astio».

il giornale.it

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