Quando il colera flagellava l’Italia
In questi giorni di paura, ma anche di inutili allarmismi sul corona virus, molti ripercorrono la storia delle grandi pandemie dell’Ottocento e degli inizi del Novecento e su come siano state sconfitte o arginate. Una di quelle sconfitte nei paesi benestanti, ma ancora pericolosa nei paesi in via di sviluppo è il colera.
Il colera era una malattia endemica di alcune zone asiatiche e soprattutto dell’India segnalata già nel 1490 nella regione del delta del Gange da Vasco de Gama. Nel corso dell’Ottocento, come ricorda Eugenia Tognotti, nella sua opera “Il mostro asiatico.
Storia del colera in Italia”, a causa di movimenti militari e commerciali dell’Inghilterra nel continente indiano, e delle macchine a vapore che resero sempre più numerosi i viaggi, il colera cominciò a diffondersi su quasi tutto il globo.
Epicentro, il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica, definisce il colera “un’infezione diarroica acuta causata dal batterio Vibrio cholerae. La sua trasmissione avviene per contatto orale, diretto o indiretto, con feci o alimenti contaminati e nei casi più gravi può portare a pericolosi fenomeni di disidratazione”.
Nel diciannovesimo secolo, ricorda il sito, il colera si è diffuso più volte dalla sua area originaria attorno al delta del Gange verso il resto del mondo, dando origine a sei pandemie (per pandemia si intende una manifestazione epidemica di una malattia su larghissima scala, anche planetaria) che hanno ucciso milioni di persone in tutto il mondo.
Il portatale dell’epidemiologia ricorda che la settima pandemia è ancora in corso: è iniziata nel 1961 in Asia meridionale, raggiungendo poi l’Africa nel 1971 e l’America nel 1991. Oggi la malattia è considerata endemica in molti paesi in via di sviluppo e il batterio che la provoca non è ancora stato eliminato dall’ambiente.
Epicentro ricorda che i sierogruppi di Vibrio cholerae che possono causare epidemie sono due: il l Vibrio cholerae 01 e il Vibrio cholerae 0139. Le principali riserve di questi patogeni sono rappresentati dall’uomo e dalle acque, soprattutto quelle salmastre presenti negli estuari, spesso ricchi di alghe e plancton.
Il sierogruppo 01 provoca la maggior parte delle epidemie e, secondo recenti studi, il cambiamento climatico potrebbe favorire la formazione di ambienti adatti alla sua diffusione. Il sierogruppo 0139, invece, è stato identificato nel 1992 in Bangladesh e, per ora, la sua diffusione è stata accertata solo nel sud est asiatico. Gli altri gruppi di Vibrio cholerae possono causare deboli forme di diarrea, che però non si sviluppano in vere e proprie epidemie.
Il sito racconta che l’approccio prescelto per la lotta al colera è “spesso multisettoriale e coinvolge la gestione dell’acqua, la sanità pubblica, la pesca, l’agricoltura e l’educazione alla salute. Tuttavia, gli interventi più importanti per la prevenzione delle epidemie di colera riguardano la depurazione dell’acqua e il funzionamento del sistema fognario”.
Garantire la sicurezza del cibo e dell’acqua e migliorare l’igiene sono, infatti, “le condizioni di base per prevenire le epidemie. Anche l’educazione al rispetto di accorgimenti igienici durante la preparazione o l’assunzione del cibo, come il lavarsi le mani con il sapone prima di iniziare a cucinare o mangiare, può contribuire a ridurre la diffusione delle epidemie”. I vibrioni del colera sono, infatti, ricorda Epicentro, “estremamente sensibili all’azione dei comuni detergenti e disinfettanti. Sono disponibili anche dei vaccini: tuttavia la loro efficacia, insieme a quella delle campagne di vaccinazione, deve ancora essere valutata e approfondita”.
Il colera è una malattia a trasmissione oro-fecale: può essere contratta in seguito all’ingestione di acqua o alimenti contaminati da materiale fecale di individui infetti (malati o portatori sani o convalescenti). I cibi più a rischio per la trasmissione della malattia sono quelli crudi o poco cotti e, in particolare, i frutti di mare. Anche altri alimenti possono comunque fungere da veicolo.
Le scarse condizioni igienico-sanitarie di alcuni Paesi e la cattiva gestione degli impianti fognari e dell’acqua potabile sono le principali cause di epidemie di colera. Il batterio può vivere anche in ambienti naturali, come i fiumi salmastri e le zone costiere: per questo il rischio di contrarre l’infezione per l’ingestione di molluschi è elevato.
Senza la contaminazione di cibo o acqua, il contagio diretto da persona a persona, secondo il portale epidemiologico, è molto raro in condizioni igienico-sanitarie normali. La carica batterica necessaria per la trasmissione dell’infezione è, infatti, superiore al milione: pertanto risulta molto difficile contagiare altri individui attraverso il semplice contatto.
Nell’Ottocento ricorda Eugenia Tognotti, nell’opera “Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia” il colera dilagò in diverse città europee generando sette pandemie nel corso del XIX secolo. Sei di queste giunsero anche in Italia: 1835-1837, 1849, 1854-1855, 1865-1867, 1884-1886 e 1893. L’epidemia che scoppiò tra gli anni 1884-86 flagellò soprattutto la città di Napoli.
Gli Stati impegnati nei traffici commerciali con altre nazioni, come ad esempio il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie, ricorda la storica, istituirono cordoni sanitari marittimi e definirono i giorni di quarantena per le imbarcazioni provenienti da zone infette e sospette. Altri governi, come quello toscano, inviarono alcuni medici nei Paesi europei colpiti dall’epidemia per studiare il decorso della malattia e le misure da essi adottate. I provvedimenti presi erano in buona sostanza quelli già sperimentati ai tempi della peste.
Le esplosioni epidemiche di colera furono “molto violente a causa della mancata igiene privata e pubblica, delle debolezze dell’organizzazione sanitaria, della povertà, e dell’arretratezza medica”. Nemmeno i cordoni sanitari, ricorda il libro e “le quarantene istituite per fronteggiare le pestilenze o le magistrature di sanità che avevano il compito di assicurare la prevenzione sanitaria e l’igiene pubblica riuscirono a contrastarle”.
La Tognotti ricorda come la “grande sfiducia nei medici e nella medicina ufficiale non fece altro che alimentare le sommosse popolari, le superstizioni, la paura di essere avvelenati, la caccia agli untori e il prevalere delle forme di religiosità popolare con processioni e voti”.
Il colera era una malattia che colpiva indistintamente tutte le classi sociali ma quelle più agiate godevano di uno stato di salute e di nutrimento migliore rispetto a quelle meno abbienti che oltre ad essere meno curate e nutrite vivevano anche in quartieri angusti e malsani.
L’inchiesta parlamentare fatta in Italia sulle condizioni igienico-sanitarie dei comuni del Regno tra 1885-86 rivelò che su un totale di 8.258 comuni più di 6.400 erano privi di rete fognaria, solo 3.335 erano forniti di latrine e in 797 gli escrementi venivano depositati negli spazi pubblici, nelle strade e nei cortili. Molti comuni non disponevano di acqua potabile e in molti casi questa giungeva agli abitanti attraverso condotti a cielo aperto. Negli anni precedenti all’inchiesta la situazione era sicuramente peggiore.
Eugenia Tognotti, ricorda poi come legato al problema dell’acqua, “c’era quello dello smaltimento dei rifiuti. Alcune grandi città davano in appalto il servizio di nettezza urbana ma nei paesi e nelle periferie si agglomerava tutto per strada. Le città ottocentesche si presentavano invase da rifiuti di ogni genere: dagli scarti di lavorazioni della concia delle pelli a quelli della macellazione, da quelli dei mercati giornalieri al letame degli animali. Le case dei poveri erano sovraffollate, prive di latrine e lavatoi e al loro interno venivano allevati anche gli animali. Vi era, inoltre, la consuetudine di seppellire i morti nelle chiese e nei conventi che erano abitualmente frequentati dai fedeli”.
Luca Borghi, nella pubblicazione Umori, ricorda la figura di John Snow (1813-1858), un medico britannico che con dedizione si interessò alle cause di contagio del colera. In contrasto con le tesi miasmatiche, Snow riteneva che non fosse l’aria a trasmettere la malattia, ma piuttosto l’acqua. Durante l’epidemia del 1854 analizzò i dati dei decessi che si erano verificati nel quartiere di Soho a Londra.
Ipotizzò che l’acqua erogata dalla frequentatissima fontanella di Broad Street fosse la causa dell’epidemia. Il suo metodo, racconta Borghi, fu infallibile: su una mappa del quartiere di Soho indicò tutte le case in cui si erano registrati morti di colera tra agosto e settembre del 1854, pochi erano quelli lontani dalla pompa e intervistando le famiglie dei morti scoprì che anche loro si approvvigionavano a Broad Street.
In Italia fece scalpore il caso di Napoli, fu in quel momento che partì il dibattito sulla questione Meridionale. Nel 1884 un’epidemia di colera colpì nuovamente la città. Fece molto parlare di sé il libro reportage di Matilde Serao, il “Ventre di Napoli”, in cui scriveva: “Non bastano 4 strade attraverso i quartieri per salvar la città. Non si possono certamente lasciare in piedi le case lesionate dall’umidità, dove al piano terra vi è il fango e all’ultimo piano si brucia dal calore in estate e si gela d ‘inverno, dove le scale sono ricettacoli di immondizia e nei cui pozzi si attinge acqua corrotta. Si mangia nella stanza da letto ed è qui che si muore. Quartieri senza aria, senza luce, senza igiene; chi arriva a Napoli ha la sensazione di giungere in una città angusta, male odorante, sporca, affogata di case tutte in altezza, di decadimento e sudiciume”.
La scrittrice si sofferma sulla grande capacità dei napoletani di sopravvivenza, nonostante le condizioni avverse, e le loro usanze singolari per rispondere al morbo e alla morte, usanze che sconfinano nel paganesimo e nella pratica di riti occulti.
Il governo Depretis, anche a seguito delle denunce delle condizioni igieniche della città, annunciò lo “sventramento” delle zone più degradate di Napoli per il piano di risanamento della città. Molte vie e quartieri furono abbattuti per fare spazio a larghe piazze e canali stradali molto ampi. Tuttavia la Serao criticò molto i politici e le istituzioni, che accusò di aver mostrato “solo intenti speculativi, non essendo riusciti a risolvere il problema, ma lasciando i poveri e gli indigenti al loro stato originale”.
Inoltre, con il senno di poi molti criticarono questo intervento. Infatti, invece di abbattere i palazzi storici, si poteva risanarli, costruire le fognature, diminuire la pressione abitativa favorendo la costruzione di nuovi quartieri in altre zone e investire su un sistema pubblico di raccolta dei rifiuti. Si potevano migliorare le condizioni igieniche delle famiglie. Invece si preferì radere al suolo vaste parti del centro storico.
Per colpa del cosiddetto “risanamento” vennero abbattute 17000 abitazioni, 64 chiese, 144 strade e 56 fondachi. Venne progettato il cosiddetto “Rettifilo”, corso Umberto, lungo quasi due chilometri, che tagliò letteralmente in due il ventre di Napoli. Non tutto fu però negativo, si pianificò la costruzione di una rete fognaria per eliminare il “pericolo dell’inquinamento del suolo per le infiltrazioni delle acque infette”. Si fecero anche lavori per l’acquedotto del Serino.
Oltre che la scusa di togliere le persone dai “bassi”, si sostenne che lo sventramento del centro città, con la creazione di “una strada principale dalla stazione centrale, al centro cittadino e una rete viaria minore servisse a favorire la circolazione verso l’interno della brezza marina”. Si decise anche di costruire nuovi quartieri a est della città.
La controversa bonifica, ispirata al modello urbanistico parigino realizzato da Haussmann, invece di risanare i palazzi storici, costruire le fognature nelle vecchie vie e alleggerire la popolazione di quei quartieri, spostando parte della popolazione in nuovi quartieri ad est, finì invece per favorire un’enorme speculazione. Parte del centro storico di Napoli fu raso al suolo senza alcun rispetto dei tantissimi monumenti, anche medioevali. Banche e speculatori costruirono, al posto dei vecchi rioni popolari e dei tanti monumenti e chiese abbattute, case per ricchi e ammassarono i poveri che erano stati espropriati, nelle vie accanto, invece che nei favoleggiati nuovi quartieri ad est della città.
Con la scusa del colera e del risanamento se ne avvantaggiarono, secondo molti storici, la Società Generale di Credito Mobiliare Italiano, la Banca Subalpina e la Società Fratelli Marsiglia di Torino; la Banca Generale e l’Immobiliare dei Lavori di Utilità Pubblica ed Agricola di Roma e la Banca Tiberina, di Torino. Si calcola che la “Società per il Risanamento” espropriò 87.500 abitanti.
L’ultima epidemia di colera a Napoli fu nel Quando Napoli sconfisse il colera nel 1973
. L’Ansa ricorda che tutto ebbe inizio il 24 agosto quando a Torre del Greco si registrarono due casi di “gastroenterite acuta”. Nei giorni successivi, ricorda l’agenzia di stampa, all’ospedale Cotugno si presentarono altri casi di ammalati con gli stessi sintomi (diarrea, vomito, crampi alle gambe) e vennero fugati i residui dubbi. L’Ansa ricorda che nonostante l’epidemia fu arginata, si creò un’ingiustificata psicosi di massa. Il responsabile dell’infezione venne individuato nel consumo di cozze crude all’interno delle quali si annidava il vibrione (poi si stabilirà che non si trattava di quelle coltivate nel Golfo di Napoli ma di una partita importata dalla Tunisia). Alla fine l’epidemia fu contenuta e secondo i dati dell’Ansa provocò la morte di 12 o al massimo 24 persone, mentre i ricoveri in ospedale erano stati quasi mille.
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