I nomadi? Sono stanziali”. E Bonaccini “regala” altri campi ai rom
Avete presente quando Giorgia Meloni sosteneva che i nomadi dovrebbero “nomadare”? E che quindi l’esistenza dei campi degradati non sarebbe giustificata? Ecco: in Emilia Romagna questo assunto non si può applicare.
Il motivo è semplice: nella terra dei tortellini, i nomadi sono considerati “stanziali”. Sembra un ossimoro, ma non lo è.
La rivoluzione è certificata a pagina 26 della Strategia regionale per l’inclusione dei rom e dei sinti, approvata nel 2016 dalla giunta di Stefano Bonaccini. La comunità, si legge, “non è più definibile come nomade” perché solo “una esigua percentuale conduce uno stile di vita itinerante”. A certificarlo ci sono i numeri: tra Rimini e Piacenza, l’89,1% della popolazione è “stabilmente presente nelle aree di sosta”, mentre appena “l’1,7% si ferma per periodi brevi” fino a tre mesi. La “stanzializzazione”, così viene definita, è dovuta a tre fattori: burocratici, di scolarizzazione dei figli e soprattutto il fatto che i nuovi lavori prevedono “presenza nello stesso luogo” mentre “i mestieri praticati precedentemente si basavano sulla possibilità di praticare uno stile di vita nomade”.La legge Bonaccini sui nomadi che fa “moltiplicare” i campi rom
La differenziazione non è di poco conto. In passato le regioni, tra cui l’Emilia, avevano edificato delle zone dove i sinti potessero sostare per poi ripartire. Come noto, quelle che dovevano essere aree di transito si sono trasformate in veri e propri accampamenti. Con tutto il corollario di degrado che ne consegue. Visto dunque che “lo stile di vita nomade non è più funzionale alla maggior parte di queste comunità”, secondo la Strategia regionale decade “la necessità di aree transito di vecchia concezione”. Così, invece di convincere i nomadi a “nomadare”, come direbbe Meloni, il Pd emiliano ha preso atto della trasformazione sociale e ha deciso di approvare una “disciplina speciale” (qualcuno dice “razzista” verso gli italiani) che permette di “spezzettare” le aree transito e costruire tanti piccoli campi in giro per la regione.
L’obiettivo ufficiale è quello di superare le grandi aree sosta, puntando ad un successivo “accesso a forme abitative simili a quelle della comunità maggioritaria”. Ma in attesa che i nomadi si convincano a vivere negli appartamenti, la paura dei cittadini è quella di ritrovarsi con due (o tre) campi al posto di uno. Come nel caso di Bologna (leggi qui), dove un’area sosta produrrà due microaree; in quello di Rimini (leggi qui), dove si prospettano cinque insediamenti al prezzo di uno.
Direte: magari un giorno verranno chiusi. In teoria è così: le microaree (pubbliche o private che siano) dovrebbero essere “temporanee”. Ma la legge non dà una data di scadenza. Inoltre in Emilia Romagna le microaree “spesso gravate da irregolarità e abusi edilizi” esistono già da tempo (la legge ha fornito un quadro normativo) ed è la stessa Regione ad ammettere che nella comunità non c’è grossa “propensione” a vivere nelle case. Se infatti i rom “accettano l’opzione dell’abitare in casa” (al netto delle morosità e della difficile relazione col vicinato), per i sinti si registra una “generalizzata tendenza al rifiuto di soluzioni abitative tradizionali” e “un alto tasso di fallimento degli inserimenti di questo tipo”. Peccato che in Emilia – dicono gli ultimi dati regionali disponibili – il 98,9% dei nomadi siano sinti. Dunque non è folle pensare che quei micro-campi alla fine diventeranno eterni. Con buona pace dei cittadini. Bologna, il Pd “moltiplica” i campi nomadiPubblica sul tuo sito