Il (finto) mea culpa Pd: “Non usiamo le manette per sconfiggere Salvini”
Il caso Gregoretti merita il premio per la polemica politica più paradossale dell’anno. Centrodestra e centrosinistra si accapigliano sul dilemma dell’arbitro: può o no pronunciarsi su questioni regolamentari? E chi altro dovrebbe dirimere dubbi di questo tipo, il Var? I giallorossi poi, accusano il presidente del Senato Elisabetta Casellati di non essere super partes, loro che si coalizzarono all’inizio della scorsa legislatura per eleggere a presidente della Camera una campionessa di terzietà come Laura Boldrini.
Ma il paradosso più eclatante, e meno sottolineato, è che la maggioranza vuole votare per spedire Salvini sul banco degli imputati, ma cercano di rinviare, mentre la minoranza, che vuole votare contro, cerca di accelerare. Il colmo si potrebbe raggiungere domani in giunta delle immunità, quando i senatori di maggioranza potrebbero addirittura astenersi e salvare il leader della Lega dal processo.
Ed è qui che risiede il vero cuore della questione, che nessuno fa notare: la protesta dei giallorossi è tesa a reclamare un diritto a nascondere la propria opinione agli elettori. Già, perché i leader della maggioranza insistono che Salvini vada processato per aver chiuso i porti a nave Gregoretti, ma vogliono prendere questa decisione dopo il voto in Emilia Romagna. Temono che Salvini sfrutti l’argomento in campagna elettorale. Il «capitano» in effetti ne approfitta: «Con me verrà processato il popolo italiano», arringa. Ma basta questo a far diventare buono e giusto il nascondere agli elettori il proprio pensiero? È la nuova frontiera della politica demostellata, una costante di questo governo fin dalla sua nascita: la convinzione che le scelte non vadano sottoposte agli elettori, considerati non abbastanza competenti per dire la loro, menti fragili traviate dai social network.
E infatti è la stessa linea che il governo sta tenendo sul versante dell’immigrazione. Il ministro Lamorgese si prepara a indebolire i decreti sicurezza salviniani sia nei confronti delle Ong, sia per quel che riguarda l’allargamento della platea dei permessi umanitari. Tutto legittimo, un governo può ben disfare la tela del precedente. Cambiare idea, come pare si apprestino a fare i grillini che votarono quelle norme quando erano gialloverdi, non è vietato. Ci si gloria anche del consenso su questi temi dimostrato dalle piazze piene di sardine. E allora perché si teme il giudizio delle urne? Ieri la contraddizione insita nella linea tenuta fin qui deve aver cominciato a diventare più chiara, perché il segretario dei dem Nicola Zingaretti, pur mantenendo ferma la critica alla Casellati, ha lanciato un segnale che parrebbe frenare sulla linea giustizialista prevalsa fin qui: «Noi non abbiamo alcuna volontà persecutoria a prescindere rispetto a Salvini. Gli avversari si sconfiggono con la politica e non con le manette». Un’affermazione di principio e di civiltà che contraddice la storia del Pd degli ultimi vent’anni, ma magari è una miracolosa conversione sulla via di Damasco. Oppure, potrebbe rivelarsi solo un modo di mettere le mani avanti per giustificare davanti agli elettori anti salviniani la scelta che la maggioranza potrebbe essere costretta a fare domani in giunta delle immunità: astenersi salvando il leader leghista dal processo pur di sottrargli l’argomento propagandistico. Un salvataggio solo temporaneo, giusto il tempo di scavallare l’appuntamento con le urne. Perché dopo la bocciatura in giunta la decisione finale verrebbe rimandata all’aula, ma dopo il voto in Emilia. E lì si vedrà se la nuova linea garantista di Zingaretti è moneta falsa o meno.
Che la questione divida la sinistra lo dimostra la «scissione» ideale di +Europa. Per il segretario Benedetto Della Vedova «Casellati è incommentabile». Emma Bonino riconosce di preferire «un presidente terzo che non prende parte» ma ammette «che non c’è stato strappo regolamentare».
il giornale.it