Partorienti senza punti nascita: la verità sul piano Bonaccini
È vero: quando il punto nascite di Porretta Terme chiuse i battenti, Stefano Bonaccini non era ancora presidente della Regione. Ma è altrettanto vero che, da quando è saldamente alla guida dell’Emilia, hanno abbassato le serrande pure i presidi di Castelnuovo ne’ Monti (Reggio Emilia), Pavullo (Modena) e Borgo Val di Taro (Parma).
Tutti e tre, uno dietro l’altro. Strutture che il governatore – dopo averle chiuse – adesso promette ai quattro venti di riaprire. In quella che appare una splendida magia da campagna elettorale.
Breve cronistoria. Tutto inizia con l’accordo Stato-Regioni stipulato nel 2010 dove si stabilisce che per garantire la sicurezza delle partorienti, i punti nascita devono realizzare almeno 1000 parti l’anno (riducibili a 500 in caso di “specifiche condizioni geografiche”). I parametri sono stringenti e tra i paesini arroccati sull’Appennino emiliano, alcune strutture sono al di sotto del limite massimo. Sono a rischio chiusura. Per tenerli aperti occorre una deroga da chiedere al ministero della Salute. La Regione presenta l’istanza (anche contro il parere della Commissione regionale), ma nell’ottobre del 2017 dal Comitato Percorso Nascita nazionale arriva responso negativo. È la condanna a morte. La giunta Pd, senza farselo ripetere, coglie subito la palla al balzo e provvede “a dare indicazione alle Aziende sanitarie di sospendere le attività di assistenza al parto”. Giù la serranda.
In questi anni i cittadini si sono infuriati. I comitati locali hanno denunciato “errori” nell’istanza di deroga redatta dalla Giunta. E non sono mancati parti effettuati lungo la strada, perché dalla montagna non si è fatto in tempo a raggiungere gli ospedali in città. Il Pd ha sempre difeso le proprie scelte, almeno fino a poco tempo fa. Poi a febbraio il cambio di passo: Bonaccini oggi assicura che fosse stato per lui non li avrebbe chiusi. Ma è il gioco delle tre carte: “La verità – attacca Galeazzo Bignami (Fdi) – è che ha usato questa scusa per giustificarne la liquidazione. La responsabilità è solo della Regione”.“O muoio di dolore oppure pago”. Ecco la sanità di Bonaccini
La “prova”, secondo le opposizioni, sta nel fatto che il documento che avrebbe “costretto” la Regione a chiudere i punti nascita è – in realtà – solo un parere “consultivo”. A chiarirlo è stato l’allora ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, spiegando che il ministero “non può imporre” nulla e che il parere del Comitato Percorso Nascita è solo di natura “tecnica”, “consultivo” e soprattutto “non inderogabile”. Tradotto: la Regione avrebbe potuto decidere diversamente, investendo le risorse necessarie per mantenere attivi i punti nascita. Sarebbe bastato rispettare gli “standard strutturali, tecnologici e di personale” indispensabili per ottenere la deroga, magari agendo prima di presentare l’istanza. Ma non l’ha fatto. Anzi: la giunta ha messo nero su bianco che l’adeguamento sarebbe arrivato solo dopo la richiesta di deroga. E soltanto per quelli che avrebbero ottenuto esito positivo. “Sarebbe stato inutile intervenire prima della decisione ministeriale – si giustificò l’asessore Venturi – in quanto la principale valutazione negativa del comitato è correlata ai bassi tassi di natalità”. Vero è che il limite dei 500 parti si fonda su un assunto logico: assicurarsi che gli operatori siano “allenati” di affrontare i casi critici. Ma magari si poteva far ruotare le equipe per i vari ospedali, da quelli grossi a quelli piccoli, garantendo il volume di operazioni. La soluzione ieri è stata proposta (anche) da una candidata Pd, ma la strada non è stata perseguita prima. Come mai?
Quel che appare strano, quindi, non è tanto la decisione di liquidare i presidi. Quanto promettere di riaprirli nel pieno della campagna elettorale. Stona anche il tentativo di incolpare gli “standard” imposti a livello nazionale, ben sapendo che la responsabilità di garantire la sicurezza delle partorienti alla fine è regionale. Bonaccini oggi si dice convinto di poter modificare i “parametri” contenuti nei decreti nazionali, rivedendo “ciò che rendeva prima impossibile mantenerli aperti”, e il ministro Speranza gli ha fornito l’assist tanto atteso. Ma la soluzione non è così semplice come appare. Riportare i punti nascita in montagna significa assicurare pediatri, ginecologi, ostetrici, anestesisti. Risorse professionali che, Commissione regionale dixit, già nel 2017 risultavano “insufficienti e inadeguate”. Serviranno investimenti, come ne servivano prima della chiusura. “La colpa è del modello organizzativo emiliano – conclude Bignami – Non dei parametri. Bonaccini non sposti la responsabilità su altri: se sono chiusi, è colpa sua”.
2) continua
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