Così Luigino disperato si aggrappa alla poltrona
Uno, il Garante, non aveva nessuna voglia di un’altra gatta da pelare. L’altro, il capo politico, forse aveva proprio voglia di un voto che sancisse la fine irreversibile del disegno di alleanza organica tra il M5s e il Pd.
«Grillo, Di Maio dovrebbe essere sostituito?» Chiedono i cronisti all’arrivo del comico all’Hotel Forum a Roma, quando l’ex vicepremier è già partito per la Sicilia, dove è in visita per tutto il weekend in alcuni comuni colpiti dal maltempo. Solo lunedì tornerà nella Capitale. «Vi state biodegradando?» – insistono i giornalisti con il fondatore – «Se ci stiamo biodegradando? Siete diventati voi, comici», risponde lui entrando nella hall. Lo attende il senatore fedelissimo Elio Lannutti. Nessun incontro in programma ieri.
Da Castelvetrano, provincia di Trapani, Di Maio ha parlato nuovamente di «grande prova di forza degli iscritti». E ha lanciato una stoccata ai tanti, compreso Grillo, che in queste ore vorrebbero salvare il salvabile stringendo un patto con il Pd in Emilia-Romagna e Calabria: «No a manovre di palazzo, no a tatticismi, evidentemente andiamo da soli in quelle regioni». Prima della partenza, il capo politico ha fatto un briefing romano con il deputato Paolo Parentela, coordinatore della campagna elettorale calabrese, e il senatore Gabriele Lanzi e il consigliere regionale Andrea Bertani, responsabili per l’Emilia Romagna. Sul tavolo la scelta dei candidati presidente – in Calabria dovrebbe correre il professore Francesco Aiello – e le eventuali alleanze con liste civiche sul territorio. Il tutto con ritmo sincopato fino al 26 gennaio.
Di Maio non vuole tirarsi indietro. Anche se è sempre più isolato. Nel consiglio dei ministri, così come nei gruppi parlamentari. Tanto che ancora ieri in molti, tra i filo – Conte e nella componente vicina a Fico, sospettavano di un piano studiato a tavolino dal capo politico, che ha spinto per la consultazione su Rousseau, convinto dell’esito che avrebbe bocciato la «pausa elettorale». Il motivo? «Staccare la spina al governo dopo il voto in Emilia – Romagna e presentarsi alle elezioni con una diarchia Di Maio – Di Battista», proseguono i sospetti. E non è un mistero che i dioscuri grillini abbiano ritrovato sintonia nell’ultimo periodo.
Sono migliorati i rapporti del capo politico con quel manipolo di parlamentari che erano tentati da un approdo nella Lega di Salvini, comunque molto critici sull’alleanza con il Pd, capeggiati dal senatore Gianluigi Paragone. In caduta libera, invece, i contatti con alcuni grillini di governo. Persino (ex) fedelissimi come Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro e Vincenzo Spadafora.
Al sospetto dei «governisti» sullo strappo di Di Maio corrisponde una strategia di contrattacco, non del tutto confermata, né approvata dal Garante Grillo. Ma che prevedrebbe di usare i dodici facilitatori da varare a metà dicembre come cavallo di Troia per sostituire il ministro degli Esteri alla guida del Movimento. Un direttorio al posto di un capo politico, almeno fino a marzo, deadline per gli Stati Generali del M5s.
In questa direzione vanno alcune delle dichiarazioni rilasciate ieri da personaggi importanti dei Cinque Stelle. Roberta Lombardi, capogruppo in Regione Lazio: «Il ruolo del capo politico singolo ha fallito». Nicola Morra, senatore e presidente della Commissione Antimafia: «Il voto di ieri dimostra che l’uomo solo al comando scoppia». Paola Taverna, vicepresidente del Senato: «Houston, abbiamo un problema!»
il giornale.it