Vittorio Feltri, la storia della “suora camorrista”: la malefatta della magistratura
Riproponiamo una storia incredibile accaduta ad una suora durante il processo contro Enzo Tortora. Vittorio Feltri la raccontò e alla fine l’ imputata riuscì a cavarsela. Da allora ad oggi non è cambiato nulla nella giustizia italiana.
In attesa dell’ imminente gran finale, il processone di Poggioreale va avanti stancamente, fra il generale disinteresse degli italiani, persino dei napoletani. È inutile: o è di scena Tortora e allora i riflettori si accendono, oppure quello che succede in aula resta nell’ ombra. Neanche il nome di Renato Pozzetto, recentemente tirato in ballo da un pentito di turno, che ha accusato il comico di aver comprato a Saronno una «derrata» di cocaina dalla camorra, è servito a interrompere il letargo dell’ opinione pubblica. Eppure non si può dire che nel migliaio di comparse che fanno da «spalle» al presentatore di «Portobello», non ve ne siano alcune che meritano attenzione, dato che, almeno a sentir loro, sarebbero vittime di tragici errori giudiziari.
Fra le storie minori passate sotto silenzio, o quasi, benché cariche di risvolti penosi, c’ è quella di suor Aldina Murelli, 53 anni, finita nel mucchio degli imputati, perché Pandico ha detto ai giudici che l’ organizzazione l’ aveva assunta, naturalmente pagando, come postina.
Insomma, era lei, insospettabile religiosa, l’ incaricata di Cutolo allo smistamento della corrispondenza calda nelle carceri: un lavoro che le riusciva facilmente, ha aggiunto il pentito, perché la veste che indossava era il più efficace dei lasciapassare.
E nel famoso blitz d’ inizio estate 1983, suor Aldina fu prelevata di notte nel convento e scaraventata in galera, non prima della rituale foto fra gli agenti che l’ avevano catturata. La sua immagine, occhi smarriti ed espressione intontita, apparve su tutti i giornali; ma ben presto sbiadì, sovrastata da quella più illustre di Tortora, e fu dimenticata. Un paio d’ anni di oblio totale, da cui soltanto una decina di giorni fa è riemersa, ma stavolta senza clamore: qualche riga di agenzia, un trafiletto invisibile nelle pagine meno ghiotte.
IL DETTAGLIO
Ma la notizia, nella prosa disadorna del cronista frettoloso, conteneva un dettaglio da far sobbalzare il lettore: il pubblico ministero ha chiesto per la monaca una pena di sei anni, che la parifica, in questo processo, ai più incalliti delinquenti. Come mai un trattamento così duro? Il fatto è che il magistrato, secondo una fredda interpretazione del codice, non poteva far diversamente. Anche alla suora, quanto ai killer, ha contestato, come si dice nel gergo delle toghe, il reato di cui all’ articolo 416 bis: associazione per delinquere a scopo camorristico.
Sarebbe lecito obiettare che le poteva almeno accordare delle attenuanti, ma evitiamo di entrare in questioni tecniche. Semmai ci preme di evidenziare una frase della requisitoria dell’ accusa che ci sembra illuminante. Questa: «E poco importa che il nobile fine della Murelli fosse la redenzione e che ella sia stata volgarmente strumentalizzata da uomini disposti a tutto». Significa, cioè, che le viene riconosciuto non solo di essere stata in buona fede, ma addirittura raggirata.
Ma allora, si può essere camorristi senza saperlo? La risposta ai giuristi. Ma andiamo a vedere in che cosa consisteva l’ attività che è valsa a suor Aldina la patente di cutoliana di ferro. I documenti sono del suo legale, l’ avvocato Antonio Viscardi che, quando ha udito le aspirazioni del pm per la propria assistita, sei anni, per poco non è svenuto. «E per fortuna – dice – che la religiosa non era presente, avrebbe rischiato un colpo». Scartabelliamo nel dossier e scopriamo che l’ unico accusatore è Pandico, non esiste cioè un secondo pentito che confermi le sue rivelazioni. «Il che – osserva Antonio Viscardi – indica che il pm ha preso per oro colato le parole del camorrista più loquace di Napoli, senza porsi un sol dubbio».
IL CARDINALE BORROMEO
Ma come ha fatto la monaca a farsi incastrare? Tutto comincia quattro o cinque anni fa, quando Aldina, già da vari lustri, è entrata nell’ Istituto della Carità di Portici e da un trentennio insegna nelle elementari. Ma la cattedra non le basta; e neppure la vita di convento, preghiere e meditazione, le sembrano sufficienti a soddisfare la vocazione. Vuol fare qualcosa di più.
È accanita lettrice del Manzoni, tra i pochi autori concessi a chi ha i voti; e c’ è un personaggio che l’ affascina in modo particolare: Borromeo, quello che dà una regolata all’ Innominato.
La redenzione dei mascalzoni, ecco a che cosa bisogna dedicarsi: e la suora, secondo il classico ottimismo di coloro che hanno fede, parte in quarta. Si mette a scrivere ai detenuti di Poggioreale, specialmente ai peggiori; quindi tra i destinatari non poteva mancare Pandico. Letterine ingenue, piene di buoni sentimenti, che su qualche disperato dietro le sbarre hanno effetto; e al convento arrivano le prime risposte che per lei sono il segno del successo.
Aldina Murelli è soprannominata dai carcerati «la nostra santa». Compone anche poesie, manda qualche pacco ai più bisognosi, visita i parenti dei reclusi, si fa in quattro per accontentare tutti, anche quelli di altre prigioni. E man mano che la missione si afferma, il suo progetto si fa ambizioso: vuole arrivare a Cutolo. «Se redimo lui – pensa -, recupero automaticamente il suo esercito. Proprio come Borromeo con l’ Innominato». Pandico si offre da tramite e le affida un’«ambasciata»: spedire al capataz, all’ Asinara, una busta prechiusa. Ad Aldina non par vero di compiere il primo passo: invia il plico con una raccomandata e consegna a Pandico una ricevuta.
Ed è così che si tira addosso l’ accusa di camorrista. Perché il pentito dirà che quella missiva era in codice, segreto di cui soltanto lui, la «postina» e il boss erano depositari. Falso? Pandico chiamato a decifrare la lettera non ha aperto bocca. Eppure questa sarebbe la prova che la monaca è un’ affiliata. Per la verità c’ è ne sarebbe un’ altra: un libro che lei ha donato al delatore, in alcune pagine del quale si intravedono delle sottolineature, anche queste giudicate espressioni in codice, ma che nessuno è stato capace di leggere se non letteralmente, quindi in modo insignificante.
«Gli elementi, come si può constatare, sono piuttosto aleatori – sostiene l’ avvocato Viscardi -, ma sono stati sufficienti a esporla all’ umiliazione della galera in tre luoghi diversi: Pozzuoli, Poggioreale e Matera, dove è immaginabile che cosa abbia sopportato. Non sarebbero mancate opportunità più serie per approfondire l’ indagine. Per esempio: Pandico dichiara che la “postina” era pagata con dei vaglia; perché non è stata fatta una verifica negli uffici postali? E perché non un sopralluogo nel convento? Se i quattrini li ha riscossi, dove li ha nascosti? E perché si è trascurato di esaminare la personalità di Aldina, che tutti concordano nel definire straordinariamente limpida?
Perché ostinarsi a non capire che una donna che ha preso il velo a sedici anni, e cresciuta in una famiglia così pia da aver dato altre due figlie alla clausura, non può essere scaltra come Pandico la dipinge?».
LA BUONA FEDE
Con un ritratto, peraltro, di cui la stessa accusa attenua i colori non negando all’ imputata la buona fede, ma che sostanzialmente è stato accolto come prova di colpevolezza. La suora, nonostante tutto, è fiduciosa: dopo lo choc dell’ arresto si è ripresa, in prigione ha continuato a fare da assistente sociale e spirituale alle detenute. «Qui – confidava all’ avvocato – ho imparato veramente a capire certi drammi e a rendermi più utile agli altri.
Un’ esperienza che chiunque predichi l’ amore per il prossimo dovrebbe fare». E quando le hanno concesso, cinque mesi dopo averla rinchiusa, gli arresti domiciliari, quasi si è dispiaciuta. Ora è nel suo istituto oltre i muri del quale non può andare. Non le è consentito di insegnare: legge e prega.
Nell’ apprendere che il pm vuole che torni in carcere per scontare sei anni, è impallidita. «Non è la pena che mi spaventa – ha detto -, ma l’ ingiustizia. Ho solo cercato di fare del bene, non mi aspettavo né riconoscenza né lodi, ma una punizione così sarebbe troppo. Non credo che arriveranno a tanto, se però questa sarà la volontà di Dio, sono pronta».
Dietro le grate, l’ attesa della sentenza è trepidante. Suor Aldina e le consorelle la trascorrono tra una novena e un rosario. Non si tratta solamente del destino di una monaca sfortunata, ma di quello di tutta la piccola comunità: dall’ estate dell’ 83, molta gente gira al largo dal monastero e non vi manda più i figli a scuola. L’ abitudine alla sofferenza, le religiose se la sono fatta; e anche una condanna non le troverà impreparate: a differenza di altri perdoneranno.
di Vittorio Feltri