“Senza prove, ma ho un cuore”: così la toga pro migranti concedeva l’asilo
“Era inserito in un contesto, parlava italiano, era vulnerabile. Mi sono misurata con l’impossibilità di ricostruire la sua storia e gli ho dato il permesso umanitario”: sono queste alcune delle parole pronunciate dal magistrato Luciana Breggia, all’interno dello spettacolo “Invece accade – dal diario di un giudice dell’asilo”
Lei è, come già scritto ieri su IlGiornale, presidente della sezione specializzata per l’immigrazione e la protezione internazionale del tribunale di Firenze. In pratica, dal suo ufficio passano tutte le richieste d’asilo pervenute nel palazzo di giustizia del capoluogo toscano. Nel 2017, racconta Giorgio Gandola su La Verità, l’85% delle domande sono passate.
E forse, leggendo i testi scritti dallo stesso magistrato nel suo spettacolo, si può ben capire il perché di quella percentuale così alta.
Luciana Breggia è salita alla ribalta già nello scorso mese di maggio quando ha rigettato il ricorso del Viminale, con all’epoca Matteo Salvini ancora in sella, contro l’iscrizione all’anagrafe di un richiedente asilo. Adesso il suo nome è tornato a circolare nei circuiti mediatici grazie per l’appunto allo spettacolo sopra accennato.
Il magistrato si è trasformato per l’occasione in sceneggiatore con l’obiettivo di raccontare il proprio lavoro dal proprio punto di vista. Una prospettiva però alquanto parziale, a dispetto del suo ruolo.
“Invece accade” è andato in scena a Lampedusa nei giorni scorsi, in occasione del convegno “La frontiera del diritto e il diritto della frontiera – Dieci anni dopo di nuovo insieme a Lampedusa”, promosso da Area Democratica, una corrente vicina a posizioni di sinistra all’interno della magistratura, nonché da Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione).
A risaltare in particolare sono state alcuni aneddoti contenuti nel testo dello spettacolo, a partire dal racconto di un caso riguardante un richiedente asilo del Burkina Faso: “Un ragazzo del Burkina Faso mi spiegò di essere fuggito dal suo villaggio per avere rifiutato di diventare re come gli spettava per successione – ha raccontato il magistrato – Ho obiettato: da noi sarebbe bello diventare re. E lui: da noi invece no, sei un fantoccio nelle mani degli anziani del villaggio. Ti usano, ti chiedono di uccidere, io sono cristiano e non volevo uccidere nessuno”.
Ed allora, ecco che si arriva alle frasi iniziali dell’articolo: “Era inserito in un contesto, parlava italiano, era vulnerabile. Mi sono misurata con l’impossibilità di ricostruire la sua storia e gli ho dato il permesso umanitario”. Non c’erano prove dunque, non c’erano indizi che il racconto del ragazzo fosse vero. La decisione è arrivata seguendo, in poche parole, “il cuore”.
A confermarlo è stata la stessa Luciana Breggia: “Ho sempre applicato le norme, naturalmente interpretandole con rigore e imparzialità – ha dichiarato il magistrato – Ma un giudice ha una testa e un cuore, non è disincarnato. Avere un pensiero ed esprimerlo lo rende più trasparente”.
Parole che sembrerebbero sconfinare nel motto “restiamo umani”, recitato varie volte da diversi esponenti politici e del mondo culturale vicino alla sinistra durante l’era salviniana al Viminale. Un motto che contraddistingue una precisa parte politica per l’appunto, una circostanza che rischierebbe di far entrare in contrasto il tanto decantato principio di trasparenza con quello, ben più importante per un giudice, di imparzialità.
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