Addio al compagno Penati Il suo silenzio salvò il Pd
Milano Le ultime meditazioni le aveva filtrate raccontando le vite immaginarie di Elena e Pep, i protagonisti nella Milano del Dopoguerra del suo ultimo romanzo, scritto quando già conviveva con il male.
Filippo Penati, morto ieri a 66 anni, aveva intrecciato gli amori privati, le lotte operaie sullo sfondo della Garelli, l’antifascismo militante che aveva conosciuto sin da ragazzo nel bastione rosso di Sesto San Giovani, la mitica Stalingrado d’Italia. E proprio a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano, Penati aveva costruito le sue fortune, seguendo il corso tortuoso della sinistra italiana: assessore all’Urbanistica nel 1985, poi sindaco negli anni Novanta quando il crollo del Muro aveva costretto Occhetto alla svolta della Bolognina e alla ricerca affannosa di una nuova identità. Lui si era smarcato a sua volta: nei dibattiti televisivi, cui partecipava con eloquio brillante, poteva essere scambiato per un migliorista di rito ambrosiano, contiguo ai vituperati socialisti, ma in realtà era vicino al cuore del partito: prima a Walter Veltroni e poi a Pierluigi Bersani, che lo mise a capo della sua segreteria politica. Il tutto senza perdere l’orgoglio delle proprie radici, fra gli immensi stabilimenti della Falck, della Breda, della Pirelli, ai confini fra la metropoli e l’hinterland.
«La Federazione di Sesto del Pci – racconta Mauro Olivi, segretario del Pci bolognese negli anni Settanta – era un pilastro del partito e i compagni di Sesto erano più chiusi, più duri e puri di quelli della mia città».
Lui invece si era aperto: «Era pragmatico e ambizioso e faceva politica per passione – ricorda Roberto Maroni, ex presidente della Regione Lombardia – ricordo di averlo incontrato quando io ero ministro del Lavoro e lui presidente della Provincia di Milano, forse in attesa di un ulteriore salto a Roma».
Un upgrade che poi non ci fu. Certo, la clamorosa affermazione contro Ombretta Colli nel 2004 e la conquista di Palazzo Isimbardi lo avevano lanciato nel firmamento nazionale, a maggior ragione dentro un partito perennemente sul lettino dello psicanalista, costretto a reinventarsi più volte da Pci a Pds e poi a Ds a Pd, sempre più emarginato nelle grandi realtà produttive della Lombardia a trazione formigoniana.
Poi, persa la Provincia nel 2009, iniziano i guai giudiziari. Viene scoperchiato il cosiddetto sistema Sesto: stecche milionarie sul destino delle aree abbandonate dalla grande industria e proiettate verso un nuovo destino fatto di terziario avanzato, ricerca, edilizia residenziale, verde pubblico. Dal 2011 Penati si difende, ma la partita politica è persa. Esce dal gioco senza parlare. Se sa, tace come ha imparato alla vecchia scuola di dogmatica comunista, come hanno fatto tutti i compagni venuti su in quella chiesa. Silenzio, una fede d’acciaio nelle proprie certezze e gli avvocati al lavoro in un groviglio di accuse. Ma il tempo non gli basta: alla fine, dopo un lungo corpo a corpo con la Procura di Monza, arriva un mix molto all’italiana di assoluzioni e prescrizioni. Ma compare anche il cancro che lui associa al lungo, doloroso travaglio: «Tutti i medici mi dicono che mi è venuto anche per quello che ho passato».
Ormai non frequenta più gli studi televisivi, dove molti ricordano questo signore fascinoso, con un portamento e stoffe d’altri tempi, un moderato di carisma e uno dei volti più spendibili della sinistra al Nord.
L’uomo dalle mille risorse comincia a scrivere romanzi, forse per esorcizzare la fine che si avvicina e per tentare un bilancio fra gli ideali che sfioriscono e le passioni che restano. Diventa a che presidente della Geas, la leggendaria squadra di basket femminile della sua città, ma in extremis gli arriva addosso un’altra tegola: la Corte dei conti lo condanna in appello per l’annosa vicenda della Milano-Serravalle, ulteriore capitolo del suo tormentato rapporto con la giustizia.
La storia di Elena e Pep, L’uomo che faceva le scarpe alle mosche, uscirà postumo il 7 novembre per La nave di Teseo. Una data che non dovrebbe dispiacere a chi era cresciuto nel mito della Rivoluzione d’ottobre.
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