Parla l’ultimo deportato. E poi dicono che erano solo i fascisti. Cosa gli facevano i comunisti nei gulag.
Giuseppe Bassi è uno degli ultimi deportati nei gulag russi. Prigioniero per 42 mesi, dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946 passando nei campi di Tambov, di Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino.
Ecco la sua storia. “Il 3 febbraio di quell’anno ho incontrato in cortile un vecchio maresciallo della caserma. Aveva in mano un foglietto: stava arruolando qualche soldato per andare in un reggimento che sarebbe partito per la Russia.
Allora ho detto che mettesse in nota anche me, volevo essere come tutti gli altri. La sera quando tornai a casa dissi a mio padre che mi ero arruolato e lui mi disse: se questa è la tua volontà”.
A dicembre la chiamata arriva, ma tempo venti giorni e Giuseppe diventa prigioniero.
E continua: “Siamo stati circondati ad Arbusowk abbiamo resistito alcuni giorni senza mangiare, dormendo al ghiaccio, sotto qualche capannone senza tetto e da lì siamo stati fatti prigionieri.
Dopo alcuni giorni ci siamo dovuti arrendere, non avevamo né da mangiare, né armi per difenderci. Tre carri armati tedeschi, in nostra difesa, giravano attorno all’accerchiamento dove ci avevano rinchiusi ma finita la benzina è avvenuta la resa. Molti morirono durante le marce, si dice che ventimila persone siano morte nel traggito per raggiungere i campi, ventimila su 100 mila”.
La vita nel campo di concentramento era dura: un tè caldo al mattino, un pezzetto di burro e 300 grammi di pane. A mezzogiorno c’era zuppa e cassia: una polentina di miglio, avena, orzo, grano e mais. Poi durante il giorno si lavorava duro. “Abbiamo vissuto così per 4 anni, ma ci sono stati prigionieri che sono stati trattenuti e hanno fatto 14 anni di prigionia”.
Di mestiere Giuseppe faceva il geometra e con il goniometro individuava i bersagli a cui si doveva sparare. “Era l’unica carta che avevamo; ogni Natale facevo un disegno della prigionia. Disegnavo l’interno del campo. Ne facevo settanta, ottanta copie e le mandavo agli amici”.
Nelle cartine delle sigarette, che ci mostra fiero tra le mani, disegnava anche particolari della chiesa monumentale del campo. O del campo stesso. Grazie ai suoi disegni, alcuni ora contenuti all’interno del museo del campo di Suzdal, è stato possibile rinvenire le fosse comuni.
“Andando al lavoro avevo localizzato la zona dove avevamo scavato le fosse, magari indicando il segnale della direzione del vento, sapevo dove erano situate perché le fosse le scavavamo noi”.
Ma è sopravvissuto grazie a un anello che portava al dito: “Quell’anello mi ha salvato la vita perché quando mi sono arreso al soldato russo e mi ha tirato fuori dalla fila per fucilarmi, lui si è accorto che avevo l’anello e ha detto “davaite – dammela”, così lui si è dimenticato del kaput e io sono vivo”.
Per dire che gli orrori hanno sempre avuto più colori!
Fonte: Il Giornale