L’allarme dai tribunali: 150mila innocenti processati ogni anno
Le consuete lagnanze sulla mancanza di personale. Gli eterni allarmi sulla corruzione che sale, l’attenzione che scende, i soldi che sono sempre troppo pochi.
Da un capo all’altro della Penisola, ieri le cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario nelle ventisei sedi di Corte d’appello hanno riproposto con poche variazioni i temi di ogni anno. Con una sola eccezione, che viene da Torino, e che ha rischiato di perdersi nei milioni di parole che hanno sommerso le cerimonie. Ed è un peccato, perché – sfidando l’impopolarità – un giudice ha sostenuto che il vero scandalo non sono i cancellieri che scarseggiano. Il cuore del problema sono i milioni di cittadini che vengono inquisiti e processati pur essendo innocenti, e che devono attendere anni e anni per vedere riconosciuta la loro estraneità alle accuse.
Il giudice controcorrente si chiama Massimo Terzi, è presidente del tribunale di Torino, e si è preso la briga di analizzare i dati della giustizia con i criteri con cui si analizza l’economia: e ha raggiunto la conclusione che «il giudizio sui titoli rappresentativi del processo penale in Italia non può che definirsi, in gergo di rating, titoli spazzatura». I dati, dice Terzi, non consentono altra valutazione: 596.426 processi pendenti davanti a giudici monocratici, quelli dei processi più semplici; altri 27.823 davanti a tribunali collegiali. «Salvo corsie preferenziali, dalla data di ipotetica commissione del reato alla emissione di una sentenza di primo grado, mediamente intercorrono 4/5 anni». Tanti, ma non tantissimi, se l’impatto è colpevole. Il problema è che il sistema inghiotte un numero impressionante di innocenti. Terzi utilizza il dato di Torino (35% di assolti dai tribunali collegiali, 50% dai giudici monocratici), lo proietta su scala nazionale e conclude: «Ogni anno abbiamo 150mila indagati poi imputati che attendono quattro anni dalla notizia di reato per essere assolti. Un milione e mezzo ogni dieci anni. Sulla base di questi dati, dall’entrata in vigore del codice di procedura penale, trent’anni fa, abbiamo processato e assolto 4 milioni e mezzo di imputati». Il rimedio? Serve un «radicale intervento chirurgico» ovvero «che il pm eserciti l’azione penale solo in presenza di fonti di prova idonee per la condanna, cioè idonee a convincere il giudice oltre ogni ragionevole dubbio». E, prevenendo le critiche: «Se qualcuno volesse portare argomenti di civiltà giuridica contro tali proposte, lo inviterei a riflettere se è conforme a democrazia che nei prossimi trent’anni si continuino a processare, per poi mandarli assolti già all’esito del processo di primo grado, altri cinque milioni di imputati».
Una denuncia quasi esplosiva, che ieri invece cade nel nulla. Siti internet e telegiornali raccontano solo gli altri discorsi inaugurali, riproducibili senza modifiche l’anno passato e l’anno prossimo. Unica variante, la valutazione che dai vertici degli uffici giudiziari viene della riforma della prescrizione, varata tra molte polemiche dal governo 5 Stelle – Lega e destinata a entrare in vigore il prossimo gennaio. Una riforma di cui poche voci isolate come Gemma Cucca, presidente della Corte d’appello di Cagliari, mettono in discussione la civiltà («una sanzione inflitta a distanza di anni è sempre ingiusta») mentre più numerosi sono i magistrati che si limitano a dubitare della concreta efficacia. È il caso di Marina Tavassi, presidente della Corte d’appello di Milano, che segnala come la stragrande maggioranza delle prescrizioni, l’83 per cento del totale, sia dovuta non alla lunghezza dei processi ma a quella delle indagini preliminari: e qui la riforma Bonafede, che stoppa il calcolo dopo la prima sentenza, non è destinata a incidere.
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