Milioni nei paradisi fiscali per parlar bene di un politico: Friedman e Prodi smascherati: adesso sono guai seri
Alessandro Rico per “la Verità”
Il Russiagate doveva demolire la reputazione politica del presidente americano Donald Trump ed eventualmente provocarne l’impeachment. Ma dalle carte dell’ indagine del procuratore Robert Mueller sull’ ex capo della campagna elettorale di The Donald, Paul Manafort (ora in manette e in attesa del processo), emerge che erano piuttosto noti esponenti della sinistra occidentale a offrire i propri costosi servigi alla causa russa.
Jason Horowtiz, firma del New York Times, ha rivelato ad esempio i particolari dell’ attività svolta dal giornalista Alan Friedman, da lui stesso definito ironicamente «l’americano professionista dell’Italia». Friedman sarebbe stato coinvolto nell’organizzazione di quella rete denominata informalmente «gruppo Hapsburg», di cui facevano parte veterani della politica internazionale che, debitamente prezzolati, dovevano presentare in chiave positiva l’ ex presidente ucraino Viktor Yanucovich, pupillo di Vladimir Putin.
Tra gli opinion leader c’era anche Romano Prodi che, stando ai documenti dell’indagine, tramite Friedman avrebbe pubblicato sul New York Times un corsivo in cui indicava proprio in Yanukovich il potenziale salvatore dell’Ucraina. Il gruppo veniva profumatamente pagato (l’ex cancelliere socialdemocratico austriaco Alfred Gusenbauer, per citarne uno, avrebbe intascato oltre 2 milioni di dollari) attraverso conti offshore.
Nel caso di Friedman, sarebbe stato versato quasi un milione e mezzo di «verdoni» su un conto delle Isole Vergini, collegato a una banca di Zurigo. I soldi, però, non comprano la fedeltà. E infatti, come riportato dal New York Times, non appena Manafort è caduto in disgrazia, Friedman, per mezzo dei suoi avvocati, avrebbe rivelato agli inquirenti americani che il suo ex amico stava cercando di convincerlo a rilasciare falsa testimonianza. Una soffiata che a Manafort è costata il ritiro della cauzione.
La posizione dell’ex corrispondente in Italia per il Financial Times, che negli anni Ottanta divenne famoso per un suo libro in cui attaccava la famiglia Agnelli (con la quale fece presto la pace), era effettivamente piuttosto delicata.
Friedman, come spiega nel suo articolo Horowitz, rischiava di essere incriminato per aver violato una legge statunitense che impone agli agenti stranieri di registrarsi come lobbisti. «Non mi sono mai registrato come agente straniero semplicemente perché non lo sono mai stato», si è giustificato lui in un’intervista al Guardian.
L’amicizia con Manafort, però, potrebbe avergli fruttato un’intervista all’allora candidato alle presidenziali Trump, che apre il suo ultimo libro, Questa non è l’America. Quel colloquio, peraltro, aveva infastidito gli sponsor e i finanaziatori del tycoon. Ma Friedman ha sempre dato l’ impressione di sapersi muovere bene nei meandri del marketing e della comunicazione.
Come ha ricordato Horowtiz sulle pagine del New York Times, nel 2011, poco dopo che aveva firmato il suo contratto con Manafort, il giornalista italoamericano si fece beccare dal quotidiano britannico The Independent, che dimostrò come Friedman avesse ricevuto milioni di euro dal governo della Malesia per produrre programmi televisivi per la Bbc, alla quale però non aveva parlato dei suoi rapporti con i dirigenti malesiani.
Quanto ai contatti con l’ex premier italiano Prodi, la vicenda comincia nel 2012, quando Friedman, come si legge in un’ email da lui indirizzata a Manafort, aveva iniziato «a mettere insieme un piccolo coro di sostenitori europei di alto livello», ma che non ricoprivano cariche pubbliche, per mettere in atto la campagna pro Yanukovich.
E qui la storia si fa curiosa. In un altro messaggio di posta elettronica, Friedman alludeva a un membro del gruppo Hapsburg che sarebbe stato «felice» di parlare con un senatore Usa, affinché venisse almeno temporaneamente accantonata la risoluzione di condanna a Yanukovich, il quale aveva fatto incarcerare un suo oppositore. Nel 2013, Friedman diede una mano a Prodi a organizzare un viaggio da lobbista a Washington. Che fosse proprio l’ex premier l’ uomo ansioso di perorare la causa del presidente ucraino? Naturalmente, Prodi ha negato di aver mai ricevuto somme da Friedman e di aver fatto parte di un gruppo di pressione.