40 anni, vergine: un unicorno, una rarità, che vede se stessa come la vedono tutti, “non conforme”
Volete sapere cosa succede quando un unicorno varca la soglia del reparto di ginecologia dell’ospedale? Non è detto che ci si ritrovi davanti la solita sinuosa figura in manto bianco, con zoccoletti che creano un gioioso scalpiccio per i corridoi, un corno fatato che sboccia dalla fronte e un fiato profumato che sbuffa caldo dalle narici.
Piuttosto, può capitare che la figura mitologica in questione sia una donna di 40 anni vergine, che si appresta a subire il suo primo intervento chirurgico. Spaventata? Sicuramente! Imbarazzata perché tutto il personale del reparto potrà leggere quello che troneggia a caratteri cubitali sulla sua cartella, “pz virgo”? Impietrita. Se mi chiedete cosa è successo quando un unicorno è entrato nel reparto di ginecologia dell’ospedale, la risposta è: una delle esperienze di umanità più arricchenti della mia vita.
L’attività sessuale delle persone, delle donne soprattutto, continua a ricevere ancora oggi un’attenzione particolare da parte della società; questo vale quando questa è presente e anche quando questa è assente; sia che si tratti di scelte guidate da tradizioni o religione, sia che si tratti di qualcosa che non deriva da una scelta. Nonostante si viva in un momento storico di forte cambiamento, nel quale sempre più voci espongono il “diverso” nella ricerca del suo accoglimento, rimangono ancora dei forti vincoli sociali che non permettono una generale accettazione e che lasciano molte persone chiuse nel loro armadio per paura del giudizio altrui.
Mi considero una persona con un intelletto nella norma e perfettamente funzionante nel tessuto sociale. Mi piace ridere, sono molto indipendente, sufficientemente generosa, ho un lavoro stabile e adoro viaggiare. Cerco di avere meno pregiudizi possibile e sono molto riservata. Nonostante quello che secondo me è un dignitoso curriculum vitae come essere umano, rimane sempre un’etichetta che mi fa sentire inadeguata. È piccola, ma sembra grande quanto una bandiera da stadio nella nostra società. Non è che sia mai stata contraria a fare sesso, ma semplicemente non è mai capitato. La gente, per un caso come il mio, si esprime con termini come “persona incompiuta”, “persona a metà”. Per non parlare di quelli che assumono che sia lesbica. Sono tutti così bravi a dare delle etichette!
Lo stigma legato alla verginità, superata una certa età, mi ha sempre reso difficile avere un dialogo sereno con gli altri sull’argomento, ma soprattutto non ha mai facilitato la gestione delle visite ginecologiche. Qualcosa ha cominciato a non andare bene fisicamente ed ero veramente stanca dello sguardo di compassione che accompagnava ogni visita e ogni volta che dovevo rinfrescare alla dottoressa la mia condizione. Quindi, complice soprattutto la sua superficialità nell’affrontare un problema di salute, mi sono decisa a cambiare medico. La nuova ginecologa era seria e competente. Un po’ ansiosa forse, ma dopotutto era la prima volta che mi vedeva e doveva già dirmi che dovevo essere sottoposta a un intervento. Le veniva naturale abbinare la mia immaturità sessuale a un’immaturità generale.
Una volta rassicurata che ero un essere umano al suo livello, siamo riuscite ad avere un dialogo tra persone adulte. Mi ha spiegato precisamente come procedere e mi ha dato il riferimento del chirurgo che avrebbe effettuato l’operazione. Io sono la prima a dire che dal dottore è preferibile non andare da soli. Non perché il paziente non sia in grado di capire le parole del medico in autonomia, ma esiste sempre una componente di fragilità, per alcune visite, che sicuramente può beneficiare del fatto di avere vicino una persona di fiducia. Io, invece, ho cercato di affrontare tutto questo percorso da sola. Non volevo che mi accompagnasse nessuno alle visite per non avere testimoni a conversazioni che potevano prendere delle pieghe imbarazzanti.
Quindi, in piena pandemia globale, comincia l’avventura che mi ha portato in pochi mesi a rivelare la mia condizione a più persone di quante avrei desiderato, affrontare un intervento chirurgico in laparotomia per asportare, tra i vari, un fibroma all’utero di 16 cm e a vedere con occhi diversi la mia veste da unicorno. Sono nella sala d’aspetto di Paolo. Sapere di dovermi trovare un’altra volta davanti a un medico nuovo, in più uomo, e ripetere ancora la solita battuta d’apertura, non è facile. Ma appena mi presento al chirurgo comincio a rilassarmi. Paolo è diretto, molto informale, garbato e solare. Ti fa sentire a tuo agio, come se ti conoscesse da tempo. Non batte ciglio mentre compila la mia scheda, anche se scrive in maiuscolo la sigla “PZ VIRGO” sui fogli. Non c’è imbarazzo, ma solo un colloquio rilassato. Si pianifica così l’operazione. L’etichetta che era sempre stata lì, la sento, comincia a perdere un po’ di presa.
La strada non è stata in discesa. Ci abbiamo messo del tempo a fissare l’intervento; a ridosso della data ho affrontato un isolamento di due settimane a causa del covid. La paura di risultare nuovamente positiva e dovere rimandare un’altra volta l’operazione era pressante. La possibilità che il reparto chiudesse le sale operatorie in caso di aumento dei contagi era dietro l’angolo. Ma riesco finalmente a entrare in ospedale, un sabato mattina alle 7. Sono la prima in lista. Con me c’è mia sorella, che gentilmente si è offerta di accompagnarmi, dato che l’ospedale preferisce avere qualcuno fuori dalle sale operatorie nel caso succeda qualcosa.
Tutti sanno che sono un unicorno. Uno scambio iniziale un po’ faticoso con un’infermiera avrebbe potuto fare cominciare negativamente la permanenza in reparto. «Devo farti una domanda personale». «Certo». «Sulla cartella hai scritto che sei virgo». «Esatto». «Ma devo farti firmare dei documenti dove dichiari di non essere incinta». «Nessun problema». «Guarda che devi essere sicura». «Sono sicura di non essere incinta». «No, perché ci sono delle implicazioni se dovessi essere incinta». «Sono sicura di non essere incinta». Ma sono talmente concentrata sull’operazione che anche questo me lo lascio alle spalle. Abbiamo comunque sdoganato l’argomento, non se ne parlerà più. D’ora in poi tutti saranno concentrati sulla mia salute, saranno rilassati e mi tratteranno come una persona normale. Sento quell’etichetta staccarsi ancora un po’.
Sono comunque molto tesa prima dell’intervento e per distrarmi parlo con tutti… I barellieri, le infermiere, gli anestesisti. In sala operatoria l’umore è alto, sono tutti allegri e questo mi fa piacere. Si fanno battute e si ride. Arriva Paolo. Mi fa una carezza di incoraggiamento e poi «Qualcuno la vuole sedare, così la smette di rompere!». Mi risveglio in camera. Ha fatto quello che gli avevo chiesto. Ha tolto tutto quello che non doveva esserci. Ci ha tenuto fin dall’inizio a preservare al massimo l’utero per le future gravidanze. La sua positività è sempre fastidiosamente contagiosa. Crede che possa rimanere incinta in futuro… E quasi quasi ci credo anch’io.
Rimango in ospedale per una settimana perché l’intervento è stato più pesante di quanto previsto. E questa settimana, che prima mi spaventava tanto, alla fine è stata come vivere in famiglia. Sono stata fortunata ad avere intorno persone di valore. Le infermiere, sempre presenti, sono state in grado di dare un tale calore umano e una tale professionalità a tutto quello che facevano, che mi sono dimenticata di essere un unicorno in reparto. Si scherzava e si parlava; vedendosi praticamente tutti i giorni si sono create delle simpatie. Il tutto intervallato dalle visite di Paolo, con la sua innata simpatia e la sua presenza professionale. Non ci sono stati atteggiamenti imbarazzati da parte di nessuno. Tutti si sono comportati naturalmente e serenamente. Nessun trattamento speciale. Nessuno sguardo strano. Ho sopportato i dolori post-operazione, superato una settimana di notti insonni e attacchi d’ansia ogni volta che dovevano cercarmi una vena, senza sapere quando mi avrebbero fatto lasciare il reparto. Il tutto praticamente senza nessun conoscente vicino a causa delle restrizioni per il covid.
Sono uscita dall’ospedale dopo una settimana, contenta di questa prova superata. Sono stata sciocca a mettere a repentaglio la mia salute per la vergogna di affrontare un argomento solo perché qualcuno mi ha fatto credere che dovevo. Sono riuscita a rimanere (quasi) sempre positiva e propositiva. Ho funzionato bene, ho affrontato tutto al massimo delle capacità richieste. Nessuno in ospedale mi ha trattato come una persona irrisolta e non degna di stima. Sia io che loro abbiamo toccato con mano che, dopotutto, questa etichetta non mi definiva.
Perché mi devo sentire meno degli altri se comunque, di fronte a quella che è una prova non semplice, riesco ad affrontare tutto nel migliore dei modi? Solo perché qualcuno si è arrogato il ruolo di arbitro nello stabilire cosa sia socialmente accettabile e cosa no? Come me altre persone, per un motivo o per un altro, non si conformano a quello che viene considerato “normale”, ma questo non significa che non siano persone degne di rispetto. La gente deve smettere di avere sempre in bocca opinioni per gli altri. Trovo che l’evoluzione personale avvenga quando si è liberi dal giudizio altrui. C’è stato bisogno di questa esperienza per liberarmi. Il mio percorso di crescita ha ricevuto nuovi impulsi. Il dialogo con le persone cambierà. Se qualcuno sarà nuovamente giudice, questa volta saprò rispondere. Non permetterò più a nessuno di farmi sentire una persona a metà. Quell’etichetta non la sento più così presente. La sindrome da unicorno, finalmente, è svanita.