Quando il 4 novembre era l’orgoglio italiano E il Tricolore sventolava
Il 4 novembre quand’ero piccolo e andavo alle elementari era festa. Mio padre mi svegliava poi, insieme, appendevamo il Tricolore alle finestre.
Mentre mi sporgevo per annodarlo sbirciavo la strada. Le bandiere tappezzavano gli edifici. Le poche finestre ignude restavano chiuse e sprangate. Quasi a sancirne la vergognosa, incomprensibile estraneità dei loro occupanti. Finita colazione io e papà scendevamo a piedi verso Piazza Unità d’Italia. L’enorme rettangolo era già invaso dalla folla. Allora lui mi prendeva sulle sue spalle.
Lentamente fendevamo quel mare di gente fino al nostro posto preferito, sotto ai pennoni della bandiera. Attaccato al suo collo canticchiavo l’Inno di Mameli, mi facevo assordare dalle sirene degli incrociatori ormeggiati, ammiravo estasiato la parata di divise in fila lungo le rive. Che splendesse un timido sole, cadesse pioggia a catinelle o tirasse bora nera e feroce, come spesso a Trieste a novembre, poco importava. La gente intabarrata non si muoveva di un millimetro. Soffriva felice ed orgogliosa mentre le formazioni si muovevano al passo. Gli ultimi e i più attesi erano sempre e solo i bersaglieri. Gli squilli delle loro trombe, lo sventolare di piume, il martellio degli anfibi sbattuti sull’asfalto al passo di corsa spalancava le porte della memoria, lasciava la piazza sospesa tra il presente il passato. Dalla corsa e dal suono della fanfara riaffioravano i racconti di nonni e papà. Di tutti quei parenti o conoscenti che erano stati testimoni di quel 3 novembre 1918. I racconti di chi aveva visto i bersaglieri scendere dall’incrociatore Audace. Le parole e le emozioni di chi li aveva guardati ammainare la bandiera dell’Impero Austro Ungarico per issare gli stessi tricolori che ora sventolavano sopra nostre teste. Ma le piume e il passo di corsa dei bersaglieri per noi triestini non erano solo il 1918. Non erano solo la Vittoria. Erano anche il ritorno all’Italia del 28 ottobre 1954. Anche allora ci avevano pensato i bersaglieri. Anche allora erano stati loro a scortare il Tricolore in una Trieste restituita all’Italia dopo gli eccidi dei partigiani comunisti di Tito e i nove anni di occupazione anglo americana.
Di quel giorno avevo la mia memoria personale. Quella di mio padre poliziotto motociclista sgusciato nella notte d’una dozzina d’anni prima per scortare fino a quella piazza i camion dei bersaglieri in attesa alla frontiera di Duino. In quel rimbombare di anfibi, in quel sventolare di bandiere, in quel mare di folla dei Quattro novembre di mezzo secolo fa io bambino, i miei concittadini, i soldati venuti a sfilare per noi rivivevamo e riassaporavamo la sofferenza e la gioia della Storia. La Storia comune del nostro Paese e della nostra città. Una Storia arrivata a compimento grazie anche al sangue di chi era morto tra le trincee della prima Guerra Mondiale. Quelle divise, quelle bandiere, quei ricordi ti legavano e ti consegnavano ad un passato e un presente comune, ad un’identità nazionale che nessuno avrebbe mai potuto cancellare. Per questo stamattina sveglierò mio figlio Almerigo e gli insegnerò ad appendere il Tricolore alla finestra. Ha soli sedici mesi, ma sono certo che capirà. E soprattutto non dimenticherà. Questa mattina facciamo sventolare la nostra bandiera. Torniamo a scoprire la nostra Storia. E a ricordare il nostro orgoglio di Italiani.
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