Quel giallo sulla «fuga» di Giorgetti
Nella capitale siamo alle ore piccole e Giggino Di Maio è reduce da Porta a Porta dove ha inaugurato una nuova prassi istituzionale nella storia di una Repubblica dove pure, in settanta anni, se ne sono viste di cotte e di crude: il governo, nella persona del vicepremier grillino, che minaccia di denunciare se stesso alla Procura della Repubblica è, infatti, un inedito.
E Di Maio, che è consapevole di averla fatta grossa, sente il bisogno di sfogarsi con i confidenti per spiegare il suo punto di vista e i suoi umori. Il tono concitato, a sentire il racconto dei suoi interlocutori, dimostra che il leader pentastellato questa volta è solo con i suoi fantasmi, con la «manina» o con le tante «manine» che volevano fregarlo. «Tutti pensano che io sia un coglione è la sua versione ma non è così. Io non mi sogno le cose. Tantopiù che sono stato io a verbalizzare il Consiglio dei ministri, visto che ero il più giovane. Giorgetti, infatti, ad un certo punto se ne è andato, perché aveva una cena a cui non voleva mancare». Non c’è che dire, l’esordio nella narrazione è degna del governo del cambiamento: nel Consiglio dei ministri più importante dell’anno verbalizza il vicepremier per via del dato anagrafico, mentre il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio se ne va ad una cena che considera più importante. Ma a parte i dati di cronaca, la sostanza politica è che, secondo lui, la parte sullo scudo penale e sui capitali all’estero, il famoso art. 9, non era nel testo licenziato da Palazzo Chigi. «In realtà si sfoga Di Maio avevamo raggiunto l’accordo anche con la Lega, per stralciare quella parte. E, comunque, anche ora dicano ciò che vogliono, ma io, quella roba lì, il riciclaggio per i mafiosi, non la voto e non la faccio votare. Il condono è robaccia della Lega e se lo vogliono scrivere in quel modo, se lo votino». Chi ascolta il vicepremier a cinque stelle pensa che a questo punto il governo gialloverde sia arrivato al capolinea. Ma non è così, perché alla fine, è proprio Di Maio il primo a sapere che non ci sono alternative. «La Lega torna a versare miele è il partito migliore con cui si possa governare». E allora chi è il fantasma che rovina i sonni del vicepremier? Qui la trama si fa più frammentaria e risponde alla necessità di trovare, sempre e comunque, un capro espiatorio. E dall’identikit che il vicepremier grillino traccia ad uso dei suoi confidenti, emerge il solito personaggio, una via di mezzo tra Belzebù e la Pantera rosa, cioè Roberto Garofali, il capo di gabinetto di quell’uomo mite che è il ministro dell’Economia. Nel nuovo immaginario 5stelle Garofali è il Belfagor che quel sant’uomo di Giovanni Tria ha avuto l’ingenuità di mettersi accanto.
Il racconto di Di Maio, che ha molto di tragico (se si pensa che ieri lo spread è arrivato a 327 punti) e qualcosa di comico, è contestato sull’altro versante, quello leghista, che propone una storytelling diversa. Alcuni ministri del Carroccio, infatti, giurano che non è andata proprio così. Che, ad esempio, Giorgetti non ha lasciato il Consiglio dei ministri per andare a cena, ma per uno scontro a muso duro con Di Maio su un argomento minore, che riguardava le associazioni sportive. «Se la metti così avrebbe detto io non verbalizzo più e me ne vado». Dalla sua questa versione ha anche un episodio di qualche giorno fa. Un gruppo di tributaristi aveva incontrato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per spiegargli che senza scudo penale il condono sarebbe stato un «flop». Ma Giorgetti, che ormai già solo a sentire il nome del Giggino di governo si irrita, li ha subito scoraggiati: «Io non ci metto bocca. È un argomento che è nelle mani di Conte, di Salvini e di Di Maio. Se ci ficco il naso io, succede il finimondo. Chiedete a Conte». E qualcuno insinua che magari dalle parti di Palazzo Chigi la comitiva potrebbe aver ricevuto maggiore ascolto.
Andando anche qui oltre gli aneddoti, resta, comunque, il problema politico. Ieri Salvini è andato giù duro: «Quel testo è stato votato da tutti e se qualcuno non è più d’accordo lo dica. Non possiamo riconvocare il Consiglio dei ministri ogni due per tre». Il giorno prima a Mosca, chi era al suo stesso tavolo alla cena di gala del convegno della Confindustria, lo ha visto perplesso quando gli hanno portato la notizia della sortita di Di Maio a Porta a Porta. «Non capisco è stato lo sfogo notturno dell’altro vicepremier nella capitale russa come gli sia venuto in mente di fare una cosa del genere senza avvertire nessuno. Non si rende conto che la Ue ci aspetta al varco, che ci attaccano da tutte le parti, e, invece, ci ritroviamo che mentre mandiamo Conte a Bruxelles a spiegare la manovra, il vicepremier a Roma gli spara contro. Qui rischiamo la figura di mer…».
Il rischio c’è. E non è tanto quello di una rottura tra i due partner di maggioranza: è probabile – seppure nell’epoca del «governo del cambiamento» non si può mai dire – che quando i tamburi di guerra della kermesse 5stelle del weekend smetteranno di rullare, leghisti e grillini ritrovino un «modus vivendi», magari a tempo. Anche se la vicenda ha cominciato ad intaccare il loro consenso: secondo la maga dei sondaggi, Alessandra Ghisleri, la sceneggiata della «manina e della manona» è costata ai 5stelle e al Carroccio un punto a testa.
I problemi veri, però, sono altri. Intanto c’è quello delle coperture della manovra: già ora – vedi l’ufficio parlamentare di bilancio c’è chi dice che mancano; una versione diversa del condono fiscale (che secondo le previsioni avrebbe dovuto portare sei miliardi di euro) potrebbe allargare ulteriormente il buco. «Se vuoi il reddito di cittadinanza osserva spazientito il coordinatore leghista della Campania, Gianluca Cantalamessa o fai il condono, o fai il condono, visto che non possiamo aumentare le tasse, né organizzare una rapina».
Eppoi c’è la grande incognita delle prossime settimane, che vede i mercati sempre più nervosi. Ieri la lettera recapitata dalla Commissione Ue a Palazzo Chigi è stata una sentenza: «Nella manovra deviazione senza precedenti nella storia». Poi ci sono, a fine mese, le agenzie di rating. Per quella data i fondi americani hanno chiesto a diverse società dei report sull’umore del Paese: «Gli italiani vogliono restare nella Ue?»; «Cosa ne pensano della manovra?». Insomma, il barometro comincia a volgere da maltempo a tempesta. In queste condizioni sicuramente certe sceneggiate, come quelle di Di Maio, non aiutano. Specie se, come azzarda qualcuno, sono dettate dall’esigenza di tenere buono il movimento. «Lui è il parere dell’ex direttore di Radio Padania, Alessandro Morelli deve tenere a bada i suoi che lo incalzano». «Di Maio la pensa allo stesso modo il piddino Emanuele Fiano è pressato dal network giustizialista grillino. Dai vari Di Battista, Travaglio e dallo stesso Grillo con il suo silenzio». Resta una domanda: un uomo di governo, degno di questo nome, dovrebbe preoccuparsi di tenere buoni i mercati o il movimento? La risposta dovrebbe essere semplice, quasi scontata, ma non lo è quando a Palazzo Chigi c’è il «governo del cambiamento».