L’ultima mossa della Cina: vaccino in regalo ai Paesi poveri
Russia, Cina e Turchia sono le tre potenze che hanno saputo cogliere (e sfruttare) maggiormente le opportunità uniche e irripetibili offerte dall’emergenza pandemica in termini di proiezione globale del potere morbido e di estensione dell’influenza. La differenza nel peso esercitato e nel ruolo rivestito, però, è immane: Ankara ha limitato la propria esposizione al paragrafo della strumentalizzazione degli aiuti umanitari, mentre Mosca e Pechino, forti della produzione di vaccini autarchici poi distribuiti in tutto il mondo, hanno potuto duopolizzare la scrittura del fato di una competizione che, oramai, sta per giungere al termine.
La strategia della Russia è stata condensata nella formulazione di tre vaccini – non uno, tre: una manifestazione di forza indirizzata al mondo intero – caratterizzati da un rapporto qualità-prezzo a prova di competizione sleale. La Cina, invece, ha trovato nella diplomazia del dono la maniera migliore di corteggiare il Sud globale: ieri regalando mascherine e strumentazione ospedaliera, oggi il vaccino.
La diplomazia del dono applicata al vaccino
Wang Wenbin, portavoce del Ministero degli Esteri della Cina, nella giornata del 23 febbraio ha aggiornato il pubblico sull’andamento della corsa globale dei due vaccini contro il Covid19 sviluppati dalla Sinopharm. I numeri forniti sono indicativi della strategia adottata da Pechino: le nazioni che stanno ricevendo vaccini in regalo superano di gran lunga quelle che lo hanno acquistato; una sagace diplomazia del dono focalizzata sul Sud globale.
In data 23 febbraio, i due vaccini della Sinopharm erano stati venduti a ventisette Paesi ed esportati sotto forma di dono a cinquantatré – ovvero quasi il doppio. Tra gli acquirenti figurano Serbia, Ungheria, Emirati Arabi Uniti e Turchia, mentre i beneficiari della diplomazia del dono si stendono in tutto il pianeta, dall’Africa all’Asia, e includono Pakistan, Cambogia, Laos, Guinea Equatoriale e Zimbabwe.
L’intento, secondo Wang, è “di rendere i vaccini un bene pubblico globale” e “la Cina è il primo Paese” in termini di impegno, diretto e diplomatico, nella concretizzazione di tale proposito; proposito che sta venendo portato avanti anche attraverso un graduale e crescente protagonismo all’interno del programma di aiuto multilaterale delle Nazioni Unite, CoVax. Allo schema, infatti, hanno aderito i produttori cinesi Sinovac, Sinopharm e CanSinoBio, i quali hanno proposto una donazione iniziale di dieci milioni di dosi.
I vaccini cinesi nel mondo
Il continente africano riveste un ruolo pivotale all’interno della strategia di distribuzione del vaccino di Pechino, ma questo non significa trascuratezza nei confronti di altri teatri importanti quali Asia meridionale e sud-orientale e America Latina. Dati alla mano, è nelle ultime due arene che le soluzioni cinesi al Covid19 stanno registrando le prestazioni più elevate; è lì che, invero, si trovano i principali acquirenti del siero della Sinovac: Indonesia (125,5 milioni di dosi), Cile (60 milioni), Argentina (38 milioni), Filippine (25 milioni), Malesia (14 milioni).
Neanche il Vecchio Continente è stato escluso dalla campagna di commercializzazione: la Serbia, sino ad oggi, ha acquistato un milione e 500mila dosi del vaccino targato Sinopharm, mentre l’Ungheria ha concluso un accordo, con la stessa casa farmaceutica, che ha condotto all’ingresso nelle proprie strutture ospedaliere di cinque milioni di dosi, ovverosia il necessario a immunizzare un quarto dell’intera popolazione.
La Cina, come spiegava Federico Giuliani sulle nostre colonne, “fin dallo scoppio dell’emergenza sanitaria ha ripetuto di essere una potenza responsabile, fornendo assistenza sanitaria a quante più nazioni possibili […] riuscendo perfino a far breccia nell’Europa orientale”. Potenza responsabile equivale a potenza umanitaria, per quanto strumentale e prestato all’interesse possa essere quell’umanitarismo, e sarà precisamente per mezzo della diplomazia del dono – riflesso della responsabilità – che l’ordine internazionale post-pandemico potrebbe parlare (o parlerà?) meno inglese e più cinese.