Tutte quelle verità “infoibate” sulle stragi volute da Tito
«Verità infoibate» riporta alla luce pagine buie del nostro passato nascoste per troppo tempo, che in realtà affondano ancora nel presente grazie ad opportunismo politico, banale conformismo, paura di andare controcorrente o totale disinteresse.
Dal nuovo presidente americano che ammira Tito alla decorazione del Quirinale ancora appuntata sul petto del Maresciallo, fino alle foibe scoperte in Slovenia, la giustizia negata e gli oltraggi ai martiri delle violenze titine che riemergono puntualmente ogni 10 febbraio, giorno del Ricordo. In edicola da domani con il Giornale pubblichiamo alcuni stralci di Verità infoibate – Le vittime, i carnefici, i silenzi della politica, per non dimenticare una ferita aperta ancora oggi.
FOIBE, COLD CASE DELLA STORIA Piccole tracce sepolte dall’oblio della storia: frammenti di cranio, di tibie, di costole. Ce ne sono migliaia e rappresentano la memoria del sottosuolo, che si ostina a non dimenticare i crimini di guerra compiuti dai partigiani di Tito vincitori, dopo la fine del Secondo conflitto mondiale. La piccola e vicina Slovenia è il cimitero nascosto più impressionante d’Europa: una fossa o foiba ogni ventisette chilometri quadrati con una media di centotrentacinque vittime ciascuna. Una commissione governativa ne ha individuate 750. Tito ed i suoi sgherri, per spianare la strada alla Jugoslavia socialista, hanno massacrato un quarto di milione di persone, e non solo in Slovenia. Tutti prigionieri di guerra in stragrande maggioranza sloveni, croati e serbi, che hanno combattuto dalla parte sbagliata o civili, ma pure migliaia di italiani, spazzati via e nascosti per sempre nelle viscere della terra in nome di una pulizia multietnica e politica. In molti casi si cerca di dare un nome e cognome alle povere ossa. «Sono i cold case della storia», dice Paolo Fattorini, esperto di Dna in ambito forense e docente di medicina legale dell’Università di Trieste. «L’interesse scientifico è grande, ma non nego un coinvolgimento emotivo. Mia madre era un’esule istriana. Provare a identificare il numero più alto possibile delle vittime nascoste per tanto tempo serve a voltare pagina».
IL PRESIDENTE USA FAN DI TITO Il nuovo inquilino della Casa Bianca è un grande ammiratore di Tito. E lo ha anche messo nero su bianco. Nel 1979, Joe Biden si reca a Lubiana con una delegazione americana «per la triste scomparsa di Edvard Kardelj», braccio destro di Tito, uno dei principali responsabili degli eccidi multietnici e dell’esodo degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il futuro presidente americano, in una missiva datata primo marzo 1979, scrive al dittatore jugoslavo, dopo il ritorno in patria: «Gentile Signor Presidente, desidero ringraziarla ancora per la sua preziosa ospitalità durante la mia recente visita in Jugoslavia». E aggiunge di avere molto apprezzato «il nostro scambio di opinioni». Il 19 agosto 2016, a Belgrado, durante una visita come vicepresidente degli Stati Uniti, Biden ribadisce nel discorso ufficiale che quello con Tito è stato «uno degli incontri più affascinanti che abbia mai avuto in vita mia». Non c’è dunque da stupirsi se, nel 2007, nel suo libro Promesse da mantenere, Biden scriveva sulla Jugoslavia «Ci è voluto un certo genio per tenere insieme la federazione multietnica e quel genio, in particolare, era Tito». L’anno prima di morire, il Maresciallo inviò una missiva al senatore Biden, dopo l’incontro a i Dalmazia, sottolineando che avrebbe fatto strada fino alla Casa Bianca.
TITO GRANDE AMICO DELL’ITALIA
Le immagini in bianco e nero dell’Istituto Luce mostrano l’arrivo di Tito in Italia il 25 marzo 1971. «Aeroporto di Ciampino. Per questo aereo sono in attesa tutte le più alte cariche dello Stato: da Saragat a Colombo a De Martino, Pertini, Fanfani e Moro. – annunci il cronista – L’aereo è un Caravelle ornato con stelle rosse. Viene da Belgrado, Jugoslavia, e porta un ospite che, per la prima volta, giunge in visita ufficiale in Italia. L’ospite, eccolo, è Josip Broz, detto Tito ()La Jugoslavia ha bisogno di amici, ma preferisce, e di molto, quelli europei, l’Italia soprattutto. Ha detto Tito, appena arrivato: Questo incontro getta una prima pietra. È una pietra tolta dal piedistallo di Mosca. È una prima pietra che conta». Solamente 2 anni prima, nel 1969, il Maresciallo è stato «decorato come Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica italiana» con l’aggiunta del Gran Cordone, il più alto riconoscimento del nostro Paese, durante la visita di Saragat a Belgrado per finalizzare alcuni accordi economici con la Jugoslavia. Onorificenza che ancora oggi campeggia sul sito del Quirinale. Nel viaggio in Jugoslavia del 1969, durante i numerosi e affettuosi discorsi, il presidente Saragat concludeva sempre con uno stucchevole brindisi rivolto a Tito: «Levo il calice, signor Presidente, al benessere Suo e della gentile signora Broz, alle fortune dei popoli jugoslavi e all’amicizia fra i nostri Paesi». Mai nessun cenno, neanche alla lontana, alle foibe.
«DITEMI DOV’È MIO PADRE»
Sono passati più di 70 anni da quel 4 maggio del 1945, ma Federico Rufolo, che ora ne ha 92, non si da pace. Quel giorno, infatti, i soldati titini piombano in casa cercando Alberto, suo padre. «Faceva il capostazione a Gorizia – racconta Federico, che forse è l’ultimo testimone in vita delle deportazioni da Gorizia – Era un pretesto per arrestarci nella notte del 3 maggio del ’45». Per Federico, 17 anni, e per suo padre inizia il calvario. I due vengono strappati alla famiglia e portati in carcere. «Papà era una persona normalissima – spiega il sopravvissuto – Un dipendente dello Stato che non si era mai esposto con il fascismo. Anzi, i fascisti li avversava. Non si capisce perché lo abbiano prelevato». I titini spogliano padre e figlio di tutto e, dopo averli schedati, li dividono per sempre. A partire da questo momento, Federico non vedrà mai più il genitore. «Il governo sloveno nel 1992 mi ha fornito le informazioni disponibili. Dai registri di detenzione risulta che mio padre abbia lasciato il carcere proprio quel giorno a mezzanotte. Ma è stato portato chissà dove». A distanza di settantacinque anni, Federico ha una sola richiesta: «Da qualche parte ci deve essere traccia di cosa è accaduto. Ditemi dove si trova mio padre».