Marxisti, Pantere nere e Blm: se l’assalto al Congresso è “democratico” allora va bene
Com’è normale che sia, l’assalto al Congresso degli Stati Uniti sta facendo ancora discutere. E, trattandosi di sostenitori di Donald Trump, il fronte globalista ha colto la palla al balzo per criminalizzare tutti i «sovranisti». Anche se il sovranismo, ovviamente, non c’entra nulla, e il pericolosissimo «golpe» si è rivelato un’opera buffa con «sciamani», elmi con le corna e sosia di Vasco Rossi che bivaccano nell’ufficio di Nancy Pelosi.
Tra le altre enormità che sono state dette, c’è quella che descrive l’assalto al Congresso dei trumpisti come un «evento senza precedenti» nella storia americana. Così ha scritto, ad esempio, Fanpage (ma gli esempi si potrebbero moltiplicare), e addirittura la presidente Elisabetta Casellati. In una lettera ufficiale inviata a Mike Pence, la presidente del Senato ha infatti scritto che «tali eventi rappresentano un attacco senza precedenti ad una Istituzione che, nel corso dei secoli, è diventata in tutto il mondo emblema della democrazia rappresentativa, simbolo vivente del valore del dialogo e del confronto come unica possibile alternativa alla logica della sopraffazione e della forza». Ma è proprio così? In realtà no: nel corso della storia americana, il Campidoglio è stato più volte oggetto di attentati, peraltro molto più pericolosi di quello dello scorso 6 gennaio. Solo che gli attentatori erano, ahinoi, tutti «di sinistra».
Assalto al Congresso: i precedenti
Il primo assalto al Congresso risale al 1° marzo 1954. A metterlo in atto furono degli indipendentisti portoricani, nello specifico Lolita Lebrón, Rafael Cancel Miranda, Andres Figueroa Cordero e Irvin Flores Rodríguez. Ispirati da idee marxiste e socialiste, ma soprattutto armati di pistole semiautomatiche, questi nazionalisti fecero irruzione nella Camera dei rappresentanti e aprirono il fuoco sui deputati. Ne rimasero feriti cinque, di cui uno grave. Arrestati, processati e condannati a pene detentive molto lunghe, nel 1978-1979 furono rilasciati dal presidente democratico Jimmy Carter, e poterono così rientrare in patria.
Altri attentati al Congresso si sono registrati nel 1971 e nel 1983. Il primo fu realizzato dalla Weather Underground, un’organizzazione eversiva dell’estrema sinistra statunitense. I militanti del gruppo piazzarono una bomba in un bagno del Senato: l’attacco dinamitardo, fortunatamente, non uccise nessuno, ma si registrarono danni per centinaia di migliaia di dollari. Tra i terroristi c’era anche Bill Ayers, che se la cavò solo perché l’Fbi, nella raccolta delle prove, usò metodi illegali: Ayers, divenuto nel frattempo docente universitario, è stato uno dei primi sostenitori politici di Barack Obama. Nel secondo episodio, invece, gli autori dell’atto terroristico furono i membri della Resistance Conspiracy, una ramificazione della May 19th Communist Organization, anch’essa eversiva e marxista-leninista. Anche in quel caso non ci furono morti, e i sei attentatori vennero arrestati e condannati. Ma anche stavolta arrivò la grazia di Bill Clinton, altro presidente democratico. Tra i graziati c’era anche Susan Rosenberg, che oggi sostiene attivamente Black lives matter. Ad ogni modo, non è stato solo il Congresso a essere preso di mira dai comunisti statunitensi: un caso eclatante fu quello del maggio 1967 a Sacramento, allorché militanti delle Pantere nere invasero armi in pugno il Parlamento della California. A quanto ci risulta, però, nessuno di questi paladini del «potere nero» indossava un elmo con le corna. Troppo poco, insomma, per parlare di «attacco alla democrazia».