Giorgia Meloni, il miracolo con Fratelli d’Italia: così otto anni dopo è diventata leader
Il 21 dicembre di questo 2020 aspro e duro, ricorrono i primi otto anni dei Fratelli d’Italia ed è una data certo non casuale: è il solstizio d’inverno, momento in cui il Sole tocca il punto più basso nell’eclittica (la proiezione del suo corso sulla sfera celeste) e, come per una sincope angosciosa, sembra scomparire in un tuffo nel buio. Ma il Sole poi rinasce, rigenerato dalla notte più lunga dell’anno, torna di nuovo giovane, vigoroso anche se di una forza ancora acerba e diciamo pure delicata. Non esiste metafora più auspicabile per rappresentare il formidabile capolavoro di Giorgia Meloni: rivitalizzare le spoglie di una destra trapassata nell’oltretomba di una promessa tradita (da Gianfranco Fini), disossata e derelitta, prostituita sull’altare della breve ma funesta dittatura tecnocratica di Mario Monti, ridotta in cumuli di rimpianti e apparentemente condannata all’irrilevanza.
Otto anni fa, nel 2012, Giorgia ha avuto il coraggio di accettare una sfida titanica e, assieme a un piccolo mondo indisponibile alla fine ingloriosa, si è sobbarcata il peso di dover scegliere tra il ruolo di esecutrice testamentaria del lascito di Giorgio Almirante e Arturo Michelini o Pino Romualdi e quello della Pazza dei Tarocchi che sorride malgrado tutto e tira avanti anche quando l’ingiustizia e la viltà sembrano diventate virtù e moneta corrente di un paesaggio rovinoso. Ha scelto quest’ ultima via, Giorgia, la più erta e faticosa, e la storia le sta dando ragione. Se oggi in Italia esiste ancora qualcosa di palpitante a destra, se nel 2020 quasi un italiano su cinque è pronto a votare per i suoi Fratelli d’Italia, lo si deve a lei e alla sua ostinata capacità di visione. Non è necessario condividerne le idee, per ammetterlo e riconoscerle il merito di aver fondato dal nulla un partito che nasceva nel deserto delle macerie, e che doveva riprendere il filo sfrangiato del Movimento sociale e di Alleanza nazionale per riagganciarlo coerentemente all’amore di Patria senza scivolare nel rancore del nostalgismo o nelle inveterate badogliane ambiguità. I numeri del conclamato successo di Giorgia Meloni li conosciamo tutti ed è superfluo riperticarli qui.
Forse più interessante è sottolineare alcuni aspetti ora psicologici ora materiali della sua vicenda. Stabilita e volendo pure storicizzata senza altrui riserve la lettura epica della ragazza di Garbatella che si è fatta da sola modellando il proprio impegno pubblico sull’esempio civile di Paolo Borsellino, il dato in un certo senso straordinario sta in ciò: Giorgia non si è messa in gioco per immettere sul mercato delle idee politiche un’offerta, diciamo così, vergine. No, è partita da un handicap fortissimo dovuto appunto al tracollo di credibilità intervenuto nella connessione sentimentale tra la destra partitica e i suoi elettori o militanti rassegnati e delusi e migrati altrove: da Forza Italia alla rinascente Lega a vocazione nazionalistica di Matteo Salvini passando per i grillini, oppure nell’abisso dell’astensione. Come una squadra di serie A che si presenti alla prima di campionato con cinque o più punti di penalizzazione provocati dalla mala gestio di un patron degenerato, i Fratelli d’Italia hanno scalato le vette della fiducia con paziente tenacia, non senza qualche forzatura calcolata nel messaggio sovranista ma con l’ombra di un futuro incognito ad attenderli dietro l’angolo.
Le premesse non erano esaltanti (9 deputati eletti e nessun senatore nelle politiche del 2013) e ciononostante la perseveranza dei Fratelli di Giorgia ha finito per essere ricambiata. Il merito, e anche questa non è una grande scoperta, ricade essenzialmente su di lei che ha saputo dare un tratto di autenticità alla personalizzazione dell’impresa. E qui arriviamo all’elemento psicologico più utile a comprendere la genesi della sua riconquista: alla vigilia delle consultazioni del 2018, con Berlusconi e Salvini mattatori sulla scena e protagonisti del clamoroso testacoda proporzionalista in materia di legge elettorale, Giorgia si è trovata sola di fronte alla possibilità di scavalcare la soglia di sbarramento oppure mollare gli ormeggi e ritirarsi in buon ordine. Chi la conosce di persona sa di cosa parlo: fu un momento di macerazione quasi paralizzante, sbloccato soltanto dalla sopraggiunta consapevolezza che si doveva comunque provare a volare, perché il compito storico di una guida è questo e non era nemmeno sperabile la prospettiva di riaggiustare dall’oggi al domani tutti i cocci del passato. Come nella canzone di Guccini tanto cara a una destra tosta e sentimentale: “Cinque anatre andavano a sud / forse una soltanto vedremo arrivare / ma quel suo volo certo vuole dire che bisognava volare”.
Quella traversata è dunque riuscita e da allora le correnti ascensionali hanno sorretto e incoraggiato la formazione di una leadership italiana, europea e istituzionale. Lei, Giorgia, popolare e popolana, autoironica e dotata di quella giusta dose d’insicurezza – nel senso del saper di non sapere – che le consente di ascoltare e studiare con pervicacia i suggerimenti dei competenti su questo o quel tema (di qui, per capirci, il sodalizio con Guido Crosetto), ha saputo tradurre ogni insegnamento nel combustibile originale di un’accelerazione quantica. E adesso quel 16 per cento di gradimento proclamato dai sondaggi vale come il 32 per cento che An non poteva neppure sognare. Infine c’è questa ricorrenza incorniciata dal numero 8, che per chi se ne intende ha il valore di un cubo piantato sulle fondamenta della stabilità, della prudenza e della riflessione. Coricato in orizzontale (), nel linguaggio matematico indica l’infinito totipotente e in quello metafisico, perché la destra o è metafisica o non è, simboleggia il nodo d’amore degli antichi misteri italici rianimati dallo stilnovo di Dante. In una parola: Concordia, ovvero la missione di una destra tanto ambiziosa da dover essere anche sinistra nazionale e centro di gravità per un’Italia chiamata a vincere l’egoismo di parte e la disgregazione prodotta dall’odio e dalle paure.