I pescatori italiani picchiati e fatti dormire per terra in Libia
Alla vigilia della loro liberazione, erano circolate voci sul luogo della detenzione dei 18 pescatori trattenuti a Bengasi. In particolare, in un articolo sul Corriere della Sera, veniva descritto l’ultimo luogo adibito alla detenzione dei marinai. Si trattava di un edificio di quattro piani che ospita l’amministrazione portuale della più importante città della Cirenaica. Al secondo piano vi era uno stanzone dove i pescatori stavano scontando le ultime ore da carcerati. Apparentemente trattati bene: più pasti al giorno e servizi igienici sempre disponibili, era questa l’immagine trapelata da quella palazzina di Bengasi. La speranza era che un tale trattamento avesse accompagnato i marinai durante tutti i 108 giorni di prigionia. Così purtroppo non è stato. I racconti resi noti nei primi interrogatori a cui sono stati sottoposti i protagonisti di questa vicenda hanno fornito un quadro tutt’altro che roseo.
I macabri racconti dei pescatori
Questo lunedì per i 18 pescatori ha rappresentato un vero e proprio “day after”. Domenica con i loro due pescherecci, il Medinea e l’Antartide, hanno fatto ritorno a Mazara del Vallo e dopo la prima notte trascorsa con le famiglie da tre mesi a questa parte è arrivato il momento del ritorno alla quotidianità. Il primo appuntamento per la nuova vita dei marinai era alla locale caserma dei Carabinieri. Qui i militari del Ros hanno avviato le indagini per capire cosa è successo in Libia. Sono quindi scattati gli interrogatori a tutti gli sfortunati protagonisti della vicenda, i quali hanno iniziato a ripercorrere giorno dopo giorno il lungo momento di prigionia. Tutto è iniziato il primo settembre nelle acque rivendicate dai libici: “Di sera siamo stati circondati da una motovedetta di militari armati – racconta ad Elvira Terranova, inviata dell’AdnKronos, Bernaldo Salvo – hanno fatto scendere sulle loro imbarcazioni i comandanti e me, che sono un timoniere”. Le imbarcazioni siciliane prese di mira dai libici inizialmente erano quattro: oltre al Medinea e all’Antartide, nella zona del sequestro si trovavano il Natalino e l’Anna Madre.
Gli ultimi due sono riusciti a scappare dalle grinfie degli uomini di Khalifa Haftar, il generale che controlla l’est della Libia. Gli altri invece sono stati scortati fino alla banchina militare del porto di Bengasi, lì dove è iniziato l’incubo. Bernardo Salvo è stato uno dei primi ad uscire dalla caserma di Mazara e a ripercorrere quanto accaduto: “Per la fuga del capitano del Natalino sono stato picchiato – ha raccontato ancora all’AdnKronos – È stato orribile, ho avuto dolori alle gambe per giorni”. Le parole di Salvo sono servite a smentire un primo elemento: i pescatori, al contrario di quanto emergeva durante i 108 giorni di prigionia, non sono mai stati trattati bene. Le loro condizioni di salute sia fisica che mentale hanno rischiato più volte di essere seriamente compromesse.
Una pagina su cui probabilmente gli inquirenti vorranno vederci chiaro. Anche perché i dettagli emersi nei primi interrogatori hanno ulteriormente confermato un quadro macabro: “Siamo stati maltrattati anche se non ci hanno mai picchiati – ha fatto presente Jemmali Farhat, uno dei due pescatori tunisini a bordo dei mezzi sequestrati – tra i nostri carcerieri c’erano giovanissimi militari. Abbiamo visto dei detenuti picchiati selvaggiamente”. Questi ultimi, ha raccontato Farhat, non erano terroristi ma dissidenti dell’era di Gheddafi. Un ulteriore segno della violenza esercitata all’interno delle carceri di Haftar.
A proposito dei luoghi di prigionia, la palazzina dell’autorità portuale di Bengasi non è stata dunque l’unica ad ospitare i marinai. Sono stati diversi i trasferimenti da un luogo all’altro della città libica. Il filo comune era dato da un trattamento tutt’altro che dignitoso: “Ci hanno trattati malissimo, non ci picchiavano ma minacciavano di farlo – ha confermato nel suo racconto uno dei due pescatori senegalesi sequestrati – Gridavano, ci facevano mettere con la faccia al muro. É stato un incubo. Ci facevano fare pipì in una bottiglia”. In tutte le celle che hanno ospitato i marinai non c’era un materasso o un cuscino. I 18 pescatori reclusi, è emerso tra le altre cose nei vari racconti, hanno dormito per terra sul pavimento: “Ho visto film di guerra sul Vietnam, ma quello che ho visto in Libia è stato incredibile – ha aggiunto il tunisino Jemmali Farhat – gli agenti erano peggiori degli animali, sono loro i terroristi, altro che i detenuti”.
Un incubo finito soltanto alla partenza da Bengasi
Ci sono poi altri aspetti non indifferenti, che hanno a che fare con la giornata della liberazione. La svolta è arrivata giovedì mattina: da Roma un aereo con a bordo il presidente del consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è decollato alla volta di Bengasi. Qui i due rappresentanti del governo italiano hanno incontrato Khalifa Haftar. Una cerimonia di accoglienza fastosa, con la quale il generale ha ottenuto ciò che voleva ossia, in primo luogo, il riconoscimento del suo ruolo politico. Conte e Di Maio gli hanno stretto la mano, si sono fatti fotografare tra vessilli e bandiere e lui, forte del risultato sperato, ha dato il via libera alla liberazione dei pescatori. Quando si è diffusa la notizia che il sequestro era finito, si pensava che i 18 marinai facessero ritorno a casa assieme al premier e al ministro. Così non è stato. In realtà quel giorno nessuno dei pescatori sequestrati ha incontrato i rappresentanti dell’esecutivo scesi a Bengasi. Questi ultimi sono ripartiti dopo poche ore, mentre al porto della città libica l’odissea per i marinai proseguiva.
I motori del Medinea e dell’Antartide non si sono subito messi in moto, l’inattività durata tre mesi dei mezzi ha giocato un brutto scherzo. Con lo spettro di un ulteriore prolungamento dell’incubo: “Abbiamo avuto paura di tornare in carcere – ha raccontato Bennardo Salvo – È venuto un nostro amico italiano e ci ha detto di andare via subito perché altrimenti si rischiava di essere nuovamente portati in prigione”. Le forze di Haftar forse erano pronte a rimangiarsi la parola: “Si diceva – ha proseguito Salvo – che i parenti dei quattro detenuti libici che dovevano essere liberati in cambio del nostro rilascio erano molto arrabbiati perché i loro congiunti ancora erano in carcere”.
Le voci su uno scambio di prigionieri
L’affermazione di Salvo apre un’altra importante parentesi. Per davvero nelle trattative si è parlato di uno scambio? Già nei primi giorni di sequestro da Bengasi erano giunte voci della richiesta, da parte di Haftar, di liberare quattro libici incarcerati in Italia con l’accusa (confermata in appello) di essere scafisti e responsabili della morte di 49 migranti nel 2015.
I media vicini al generale hanno riferito della richiesta di rilascio dei ragazzi libici rivolta a Giuseppe Conte durante il colloquio tenuto a Bengasi. Ma sarebbe stato specificato da parte italiana dell’irricevibilità della proposta: “Il premier Conte – si legge in un lancio di AgenziaNova dello scorso 17 dicembre – ha risposto che il potere esecutivo e quello giudiziario in Italia sono separati e che la magistratura è indipendente”. Eppure i libici hanno dato l’impressione ai 18 marinai di aspettarsi lo scambio di prigionieri.
“Uno dei pescatori tunisini aiutava in cucina – ha raccontato ancora Bernardo Salvo – e si è fatto amico i carcerieri. E ci ha detto che noi saremmo stati rilasciati solo in cambio della liberazione di quattro detenuti libici in Italia. Ma non sapevamo se fosse vero. Però lo ha detto più volte”.
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