“Usate gli antinfiammatori appena vi sale la febbre: non aspettate il tampone”
Usare gli antinfiammatori appena sale la febbre potrebbe impedire all’infiammazione da coronavirus di degenerare in polmonite interstiziale. A riprendere l’argomento è Libero, venuto in possesso del documento firmato dal professor Giuseppe Remuzzi e altri tre suoi colleghi, Fredy Suter, per anni primario nel reparto di Malattie Infettive all’Ospedale di Bergamo, Monica Cortinovis e Norberto Perico.
Nel testo ci sarebbero proprio le indicazioni su come affrontare la malattia fin dai primi sintomi.
Antinfiammatori per evitare il ricovero
Remuzzi, direttore dell’Istituto Farmacologico Mario Negri, con diverse pubblicazioni alle spalle, ha spiegato che si tratta della sintesi della loro esperienza medica riguardante l’efficacia dei farmaci per combattere il Covid-19, e non di un protocollo scientifico. Il documento è stato pubblicato anche sulla rivista Clinical and Medical Investigation, ma non è attribuibile all’Istituto Mario Negri. L’importante, come sottolineato da Remuzzi, è agire con tempestività, perché prima si inizia la cura e maggiori sono le possibilità di guarire, evitando il ricovero ospedaliero. Insomma, curarsi fin dai primi sintomi tra le quattro pareti domestiche evitando di pesare sugli ospedali che possono così dedicarsi ai malati gravi. E lo stesso vale anche per le persone anziane: se curate in tempo possono evitare il ricovero, anche perché potrebbe destabilizzarli.
Come sapere se si è malati e agire di conseguenza? Il professore ha spiegato come funziona la malattia: “Si ha una prima fase asintomatica che dura da tre a cinque giorni. La quantità di virus in corpo in quel momento è già alta, e lo è molto di più nei giorni successivi, proprio quando cominciano i primi sintomi; per questo il contagio si propaga rapidamente. La peculiarità del nostro approccio è iniziare la cura ai primi sintomi, senza aspettare il risultato del tampone”. Remuzzi ha anche precisato che non è pericoloso curarsi prima di avere l’esito del tampone, aspettare il risultato può voler dire lasciare passare troppi giorni, andando incontro a un aggravarsi dell’infiammazione.
Ecco come comportarci se notiamo i sintomi più comuni, ovvero tosse nel 67,8% dei casi, febbre (43%), affaticamento e spossatezza (38,1%) e meno frequentemente dolori ossei e muscolari (14,9%), mal di gola (13,9%) e mal di testa (13,6%) o, più raramente, nausea e vomito (5%) o diarrea (3,8%). “Suggeriamo di assumere nimesulide o celecoxib, per via orale, se non ci sono controindicazioni, per un massimo di dieci giorni. Nimesulide e celecoxib sono inibitori della ciclossigenasi 2 e ci sono molti dati, riassunti in un lavoro pubblicato sul Journal of Infectious Diseases, che dimostrano che questi farmaci inibiscono quella che gli immunologi chiamano “tempesta citochinica” e limitano la fibrosi interstiziale dei polmoni. Per quanto riguarda le dosi e il periodo di somministrazione però, è il medico di famiglia che deve decidere. Può ispirarsi, se vuole, al nostro lavoro appena pubblicato su Clinical and Clinical Investigations. Lì c’è tutto: dosi, tempi di somministrazione, controindicazioni”.
Anche prima del tampone
Questi antinfiammatori dovrebbero essere sufficienti. Se i pazienti hanno segni di danno epatico o problemi cardiaci, possono sostituire questi farmaci con l’aspirina. C’è chi prende la Tachipirina, la quale abbassa la febbre ma non ha però un’azione antinfiammatoria e sarebbe anche sconsigliata perché, secondo un lavoro pubblicato su Science Direct da ricercatori francesi, potrebbe anche portare a un aggravarsi della malattia. Se poi l’esito del tampone è negativo, nessun problema. I farmaci presi aiutano comunque a guarire da qualsiasi virosi delle alte vie respiratorie che dia dolori muscolari, articolari e febbre. Il medico di famiglia va comunque chiamato appena compaiono i primi sintomi perché, come ha tenuto a sottolineare il professore: “Gli antinfiammatori sono farmaci da maneggiare con attenzione. In certi casi, per fortuna rari, possono avere effetti negativi. Insomma, cura a casa non significa affatto cura fai da te. Su questo vorrei essere molto, molto chiaro, perciò in questa prima fase sarebbe molto importante che il medico vedesse il paziente a casa almeno una volta, poi potrebbe essere sufficiente sentirsi al telefono, molto meglio se tramite videochiamate”.
I pazienti curati in questo modo solitamente stanno meglio in circa 3-4 giorni. Se poi gli esami del sangue vanno bene si prosegue con i farmaci ancora qualche giorno, con nimesulide o aspirina. Altrimenti, in caso di iper-infiammazione o coagulazione deciderà il medico sul da farsi. Anche in quel caso non è necessario il ricovero, si può continuare a curarsi da casa e, se peggiorano i sintomi, passare al cortisone. Anche in questo caso sarà il medico di famiglia a prescrivere dosi e modalità. “Se il D-dimero aumenta anche di poco, per prevenire la trombosi somministriamo eparina a basso peso molecolare. Anche qui, sempre al medico saranno affidati i dosaggi e i tempi di somministrazione”. Secondo il Comitato Tecnico Scientifico per l’eparina serve il ricovero ospedaliero, ma l’Agenzia del Farmaco la autorizza anche a casa e nelle Rsa. In Lombardia, come ha tenuto a sottolineare Remuzzi, ci sono quasi 300mila persone curate a casa con qualche forma di eparina.
“Per le persone più fragili e anziane, o se la patologia è già degenerata in polmonite batterica, o si sospettano infezioni batteriche, somministriamo azitromicina. Se il paziente però ha una storia di aritmie cardiache, meglio cefixima: può essere ritenuta una valida alternativa all’azitromicina” ha aggiunto il professore. Se il saturimetro indica una diminuzione dell’ossigeno nel sangue, nelle prime fasi, prima cioè di sintomi polmonari, va bene ricorrere al supporto di ossigeno. Tutto restando a casa propria. L’importante è non perdere tempo. “Per adesso è tutto empirico anche se ci sono importanti lavori in letteratura a supporto di quanto noi facciamo. Per esempio c’è un lavoro pubblicato su Anesthesia and Analgesia, un giornale americano, che dimostra come l’aspirina riduca la necessità di terapia intensiva e di ventilazione assistita e riduca la mortalità. Presto inizieremo uno studio vero e proprio, questo sì è un ambito di competenza dell’Istituto Mario Negri. Alla fine di questo studio, che durerà però diversi mesi, potremo dire se questo tipo di approccio ha o no una dignità scientifica”.
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