Enrico Mattei: uno statista per la “terza via italiana”
La sfida perduta, saggio di Giorgio Galli del 1976, è probabilmente più significativo sull’attività di Enrico Mattei. Il politologo si basa in parte su Il cane a sei zampe. Mattei e l’Eni, libro di Dow Votaw dato alle stampe due anni prima, ma amplia la prospettiva con significative considerazioni che sono fondamentali per la comprensione della stessa storia della nostra nazione.
L’ambigua “resistenza” di Mattei
Galli non considera Mattei un semplice dirigente, ma un vero e proprio ”imprenditore e uomo di Stato” che finisce per riaffermare, a livello istituzionale, una cultura economico-politica di tipo fascista (Galli 1976, p. 38). Il politologo milanese si sofferma su Mattei squadrista nelle Marche poi militante fascista e sul Mattei partigiano democristiano. Il presidente dell’Eni definirà, nel dopoguerra, la “Resistenza” una manifestazione di cattolicesimo nazionale – antimarxista e antiazionista – identificando poi nella rivoluzione sociale mazziniana il più alto e equilibrato ideale di italianità (Mattei 2012, p. 150): evidente la finalità matteiana di rompere una volta per tutte con il dogma dell’antifascismo.
Nella sua ispirazione attiva egli diventò l’erede e il continuatore dell’interventismo statale fascista oltre ogni retorica neo-resistenziale (Galli 1976, pp. 133-139); il tecnico Carlo Zanmatti, formatosi nel regime fascista e funzionario della Rsi, fu il suo riconosciuto maestro. Galli usa il termine “populista” per indicarne il retroterra ideale, ma va considerato che “populismo” negli anni ’70 aveva ben altro significato da quello odierno, significava anticomunismo e anticapitalismo, rimandava perciò ben più al “peronismo tercerista” che ai “valori della resistenza”.
La relazione tra Mattei e neofascisti fu tra l’altro importante: risultano suoi strettissimi contatti con il segretario missino Arturo Michelini e in più casi, tra il 1954 e il 1959, il Movimento sociale e il “Secolo d’Italia” difendono, anche in Parlamento, l’Eni dagli attacchi dei media della borghesia speculativa e atlantista. Enrico Mattei, peraltro, sostenne attivamente sia l’esperimento del milazzismo siciliano, sia contro le sinistre, il governo Tambroni, nato con i voti del Msi micheliniano. E’ però anche vero che il senatore missino Nencioni e Mario Tedeschi, assai vicini all’atlantista Eugenio Cefis, lanciano anch’essi, in almeno due significativi frangenti, dalle pagine del Borghese, attacchi all’Eni di Enrico Mattei, uniformandosi all’ostilità antimatteiana della borghesia padana.
Vari rapporti di intelligence del Dipartimento di stato statunitense e dell’ambasciata americana di Roma, venuti alla luce in anni recenti, sottolineavano con una certa preoccupazione la continuità di indirizzo statale sociale tra il Ventennio e il “neo-volontarismo” dirigista di Mattei, criticavano “il neoatlantismo mediterraneo” teorizzato dall’esponente della Dc di destra Giuseppe Pella nel 1957, in quanto secondo le fonti Usa per il terzetto Mattei-Gronchi-Pella tale “neoatlantismo” altro non sarebbe stato che anti-americanismo geopolitico e geoeconomico. D’altra parte, il presidente dell’Eni, qualora lo ritieneva proficuo per il bene italiano, non esitava a trattare direttamente, al di là dei canali istituzionali diplomatici, anche con nazione come Urss, Cina, Marocco, Tunisia e Egitto.
La crociata di Mattei contro “la plutocrazia”
Il 1957 è l’anno in cui Mattei riesce a stipulare un accordo storico con l’Iran dello Scià. Tale accordo fu il più grande tra i suoi trionfi, nascerà infatti la Società Italo-Iraniana del Petrolio, le compagnie angloamericane e le elite politico-finanziarie d’occidente prometteranno da allora tempesta sia a Mattei sia a Reza Pahlavi. Sempre nel 1957 fallisce però il suo tentativo di accordo su concessioni libiche a causa dell’intervento diretto del governo degli Stati Uniti. Questo episodio lo porta a radicalizzare le sue posizioni, all’anticomunismo Mattei aggiunge ora un antiamericanismo strategico con l’idea dell’indipendenza nazionale e mediterranea. Francia e Gran Bretagna sono considerate da Mattei – come nella Seconda Guerra – antagoniste dell’Italia, nazione di per sé poverissima di materie prime, il sostegno dell’Eni al Fronte di Liberazione Nazionale algerino sarà determinante per la vittoria finale dei patrioti islamici contro la Francia.
E’ da questo momento che Mattei, sulla base di una cultura che Galli riconduce di nuovo al medesimo retroterra ideologico (Galli 1976, p. 148), trasforma la sua iniziativa concorrenziale e competitiva nei confronti delle sette sorelle in una crociata geopolitica contro la plutocrazia mondiale, con alla testa gli Stati Uniti. Il patriottismo italiano di Stato diviene sempre più, grazie a lui, l’avanguardia globale del terzomondismo anti-Yalta.
Il 4 aprile 1962 Mattei dichiara che porterà l’Italia fuori dalla Nato alla guida del fronte del rifiuto di Yalta, se la Dc e il Psi lo sapranno supportare a dovere. Notevole, anche in tal caso, l’affinità ideologica con il “peronismo tercerista” e l’estraneità sostanziale di Mattei all’orizzonte neo-gappista o cattocomunista post-resistenziale.
Il “matteismo” come ideocrazia: terza via italiana
Grazie a Ezio Vanoni e a Enrico Mattei, come già visto, le conquiste sociali dello Stato fascista vennero gelosamente tutelate dopo la sconfitta del ’45. Nel corso della cerimonia del conferimento della laurea honoris causa in economia e commercio a Urbino, il 4 febbraio 1962, Enrico Mattei teorizza il capitalismo statale e il ruolo strategico dell’impresa pubblica contestando il liberismo di importazione angloamericana. Il matteismo evolve storicamente in una sintesi mista e armoniosa tra privato e pubblico ma, come avvenne nel Ventennio, la funzione direttrice era riservata alla politica economica di Stato, non alla borghesia finanziaria speculativa o al mercato.
Francesco Carlesi ha pubblicato nel 2018 un testo di valore e notevole attualità: La terza via italiana: storia di un modello sociale. Vanoni, Mattei, Bettino Craxi furono certamente, negli ultimi decenni, l’anima sociale di questa terza via italiana (pp. 138-148). Una seria e concreta critica al Msi è qui d’obbligo. Non può esser quella, assai stantia, di esser stato “atlantista”. L’odg del Msi subito dopo la notte di Sigonella fu procraxiano mentre il Pci “antiatlantista” sarà il regista interno del golpe americano anticraxiano. Non può nemmeno essere quella di esser stato “sionista” e antiarabo, dato che unico alleato ufficiale in Medio Oriente fu per gli almirantiani la Falange libanese di Bashir Gemayel non Israele, ma non mancarono negli anni nutrite componenti filosciite. Tale critica tra l’altro è ben ridimensionata da un serio storico come Giuseppe Parlato. La critica vera sarebbe un’altra: la dirigenza missina, dopo aver teorizzato per decenni lo “Stato nazionale del lavoro”, l’ “umanesimo sociale”, accoglieva purtroppo con sostanziale indifferenza la storica apertura craxiana a destra dei primi anni ‘80, fondata sul progetto di “Grande Riforma” sociale presidenziale e su una linea euro-mediterranea più che euro-occidentale. La sconfitta craxiana, con il suo progetto modernizzatore e riformista, avrebbe per la nazione significato l’abbattimento dell’Iri e dello Stato sociale, i tagli alla sanità e tutto il resto che vediamo.
Anni dopo, ma forse troppo tardi, le più forti voci di aperta contestazione che si levarono, dentro al Parlamento e fuori, durante l’operazione Tangentopoli, contro le privatizzazioni liberiste, contro l’americanismo, in difesa di Craxi e del “socialismo tricolore”, provennero dalla destra sociale del Msi. Non a caso, Bettino Craxi recensendo nel 1996, dall’esilio tunisino, il libro di Sergio Romano, Finis Italiae, specificava che la “rivoluzione di palazzo” detta Mani Pulite puntò strategicamente proprio all’annientamento dello Stato sociale di derivazione mussoliniana, tutelato gelosamente da Mattei, che nelle sue fondamenta aveva saputo reggere l’urto nel corso dell’intera Prima Repubblica (Craxi 1997, pp. 95-99).
Due vite per l’Italia
L’ Italia aveva un peso strategico primario nella logica dei blocchi di Yalta. L’Italia di Mattei, il quale trattava direttamente con Stati esteri “non allineati”, basata su un’armoniosa sintesi di pubblico e privato, sulla creatività stilistica e ideocratica fondata sul connubio tra modernità tecnologica e tradizione valoriale, avrebbe finito per troppo somigliare, pericolosamente, all’Argentina di Peròn, alla Spagna del Caudillo e forse a quello stesso Iran che cercava, per quanto in modo controverso almeno sino al 1979, di liberarsi dalle catene di Yalta: ciò non era più tollerabile. Galli parla ingenerosamente di sfida perduta, rimproverando a Mattei uno scarso acume politico; in realtà, la sfida fu perduta perché il primo nemico di Mattei, prima dello stesso americanismo o del gollismo francese (quelli che restano tutt’oggi i maggiori indiziati del suo insoluto omicidio), fu il solito “fronte interno”, in particolare quella Dc di sinistra che da tempo sabotava Mattei su tutta la linea. Assieme a Enrico Mattei cadde per l’Italia, il 27 ottobre 1962 a Bascapè, il suo pilota personale, l’asso della Repubblica Sociale Irnerio Bertuzzi, il collaboratore di cui Mattei più si fidava. Bertuzzi fu peraltro solo uno tra le centinaia di ex volontari della Rsi integrati da Mattei nei ranghi dell’Eni.
Mikhail Rakosi