La sinistra ormai non capisce più le piazze. E se la prende coi “fascisti immaginari”
Il fatto che la sinistra, entrata stabilmente nelle stanze dei bottoni, non sia più in grado di parlare al popolo è ormai assodato. Tanto che questo dato di fatto è diventato un luogo comune su cui c’è ben poco da discutere. Nonostante l’ubriacatura piazzaiola suscitata dalle sgangherate (ed effimere) sardine, questo fenomeno è tornato di un’evidenza sconcertante negli ultimi giorni: di fronte alle proteste contro il Dpcm, la sinistra ha reagito in maniera scomposta, goffa e smarrita. Prima ha fatto finta di nulla, poi ha dato la colpa ai «fascisti» e infine – smentita la «pista nera» – se l’è presa ancora… con i fascisti.
La sinistra sessantottina
Il cortocircuito della sinistra globalista, in realtà, viene da lontano. E a questo punto vale la pena ripercorre le tappe di questa metamorfosi che ha interessato i figli del «sol dell’avvenire». In principio fu il Sessantotto. Disamorati dall’Unione Sovietica (monolitica e repressiva) e dai proletari (bianchi e xenofobi), gli attivisti sessantottini mandarono al diavolo la classe operaia e si innamorarono delle «minoranze» e degli «emarginati», ossia i membri della nuova classe oppressa. L’autorazzismo globalista, in effetti, nasce lì. Ma non è questo il dato saliente: introiettando l’individualismo liberale, la sinistra sessantottina iniziò a scendere in piazza solo ed esclusivamente per rivendicare i diritti delle minoranze (donne, gay, immigrati ecc.), anche i più assurdi. Ogni istanza comunitaria, sociale e collettiva uscì fuori dall’agenda politica dei sessantottardi, che anzi presero la pessima abitudine di contestare non tanto lo Stato borghese e il potere capitalista, quanto piuttosto ogni tipo di Stato e ogni tipo di potere. La critica, peraltro, coinvolgeva qualsiasi istituzione, anche i partiti e i sindacati. In sostanza, fu durante il Sessantotto che la sinistra perse i suoi strumenti di critica sociale e il suo afflato comunitario, per abbracciare un individualismo smidollato, rivendicativo, situazionista e incapace di una lettura strutturale della società.
Goodbye Lenin
Un’ulteriore tappa di questa metamorfosi è rappresentata dal crollo definitivo dell’Unione Sovietica (1989-1991), che pian piano ha eliminato ogni residuo operaista e collettivista. Dall’«eurocomunismo» alla globalizzazione neoliberale il passo è stato piuttosto breve. Nel concreto, se fino ai primi anni Duemila la sinistra era ancora capace di una critica no-global e di portare in piazza centinaia di migliaia di lavoratori (girotondi ecc.), nell’ultimo ventennio gli ex compagni hanno finito per abbracciare in toto la cultura dominante partorita dai miliardari della Silicon Valley. E i politici del serpentone Pci-Pds-Ds-Pd, ormai stabilmente a Palazzo, hanno completamente perso ogni collegamento con le piazze, che infatti non riescono più a riempire.
Sinistra e informazione di massa
Non solo: se le piazze sono vuote, è perché questo vuoto riflette anche la capacità di analisi della società. Fa quindi specie che la sinistra, davanti al disagio socioeconomico di larghe fette del popolo italiano, non solo non sappia più interpretarlo, ma non riesca neanche a ritenerlo possibile. Di qui la tesi autoassolutoria della «destra che parla alla pancia del Paese» o dei «fascisti» che provocano scontri con la polizia. L’unico vantaggio di cui possono ancora giovarsi i globalisti di sinistra è un arsenale massmediatico totalmente appecoronato ai loro desiderata. E così, anche di fronte all’evidenza, cioè gli scontri causati da immigrati e anarchici, ecco che stampa e televisioni parlano ininterrottamente di «pericolo fascista». Le truppe cammellate dell’informazione italiana suscitano ribrezzo, è vero, ma il dato rimane: questa sinistra non sa più parlare al popolo, è vero, ma riesce tuttora a mentirgli benissimo. L’unica domanda è: per quanto tempo ancora il giochino potrà funzionare?
Valerio Benedetti