Le ragioni del “No” all’euro: l’esempio della Svezia
Non sono in molti a ricordarsi che 17 anni fa, precisamente il 14 settembre 2003 si tenne in Svezia un referendum per decidere se aderire o meno all’unione monetaria europea e abbandonare la valuta nazionale. Tutti i partiti più importanti, ad eccezione dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, e le organizzazioni delle imprese si schierarono a favore dell’entrata nell’euro, eppure non senza una certa sorpresa, il 57% dei votanti scelse di dire no, tra l’altro con una affluenza alle urne molto alta, superiore all’80%.
Nei mesi precedenti al voto vi fu una lunghissima campagna referendaria indirizzata a mostrare come l’eurozona fosse un’area valutaria ottimale, che avrebbe garantito la stabilità e lo sviluppo dell’economia svedese. Erano poche le voci che si levavano contro questa narrazione, una su tutti quella dell’economista Lars Pålsson Syll, il quale sosteneva che non vi erano, e continuano a non esserci, ragioni sufficienti per aderire all’unione monetaria.
Rinunciare alla sovranità monetaria non è stata una buona idea
Per Syll l’eurozona non è mai stata in grado di mostrare significativi aumenti a livello di crescita economica dalla sua creazione, ed anzi non ha fatto che accentuare i problemi che in alcuni casi, vedi Grecia, hanno portato a dei veri e propri disastri.
Uno degli argomenti portati a favore dell’euro era che, in caso di adesione, ci sarebbe stata una convergenza a lungo termine in termini di risultati economici come crescita, occupazione, inflazione e debito pubblico. Oggi possiamo vedere che le differenze non solo sono rimaste, ma si sono addirittura intensificate.
D’altronde non vi è nulla di cui rimanere sorpresi: rinunciando alla propria valuta si rinuncia di fatto alla possibilità di avere una politica monetaria. Si dovrà ricorrere al mercato per finanziare la spesa pubblica, cosa che come ben sappiamo in Italia può diventare molto costosa e a volte molto difficile.
Inoltre l’adesione all’euro porta con se l’impossibilità di adottare liberamente misure economiche atte a garantire determinati livelli di occupazione e di servizi pubblici. Secondo Syll diventa chiaro come l’euro non sia un progetto economico ma fondamentalmente un progetto politico, che mira a realizzare quello che non è riuscito alla rivoluzione liberista, che ha avuto i suoi massimi esponenti politici in Reagan e la Thatcher a partire dagli anni ’80.
L’euro rende impossibile rispondere alle crisi
La domanda che si pone Syll e che ci poniamo tutti noi è se i popoli europei vogliano davvero privarsi dell’autonomia politica ed economica, imporre salari più bassi e tagliare la spesa pubblica e quindi i servizi essenziali, alle prime difficoltà? I popoli europei sognano davvero una crescente disuguaglianza e un sovrastato federale?
Il Covid-19 ha messo in luce l’evidente disparità in termini di possibilità di arginare i devastanti effetti della crisi economica: chi aveva “spazio” in bilancio, o meglio ancora era dotato di sovranità monetaria, ha potuto mettere in atto da subito misure più o meno efficaci di contrasto. Nell’eurozona siamo fermi al Recovery Fund, che ancora deve essere approvato dalle singole nazioni, non verrà erogato prima del 2021 e cederà ulteriori quote di sovranità nazionale e di spazio di manovra. Senza contare che proprio il coronavirus ha evidenziato i danni provocati dalle politiche di austerità perseguite negli ultimi anni, accentuando ad esempio i disagi relativi ai tagli riservati alla sanità pubblica.
D’altronde il progetto euro non è mai stato democratico ma imposto dall’alto, e quando è stato chiesto alla gente comune di aderirvi, come è accaduto in Svezia, la risposta è stata negativa. Gli svedesi hanno capito prima di altri che una moneta unica avrebbe portato ad una maggiore disoccupazione, aumentando le disuguaglianze e non certo a favore delle classi meno abbienti.
Svezia batte eurozona
La storia recente ha poi smentito chi affermava che la Svezia avrebbe avuto solo grandi vantaggi dall’adesione all’eurozona. I risultati economici sono stati migliori della media europea e anche durante la crisi del 2008 la Svezia ha gestito molto meglio la recessione che ne è scaturita. E’ ancora presto per vedere se reagirà meglio anche alla crisi provocata dal Covid, di sicuro avrà più autonomia e margini di manovra.
Quello che certo è che la Svezia ha una grande tradizione in materia di Stato sociale e di piena occupazione e non è stata disposta, e difficilmente lo sarà in futuro, a barattarla con l’illusione di una maggiore efficienza. Il sostegno popolare al fronte del “No” è rimasto immutato ed è dato addirittura in crescita, gli ultimi sondaggi datati maggio 2020 danno una percentuale di svedesi pari al 64,3% ancora contrari all’adozione dell’euro.
La dura realtà mostra come sia difficile, lungo e pieno di sacrifici il percorso necessario per uscire da una crisi economica e ristabilire determinati livelli di occupazione e di crescita economica in una nazione senza sovranità monetaria, dove non sia possibile condurre adeguate politiche fiscali. Per quanto tempo ancora dovremmo sopportare le continue ingerenze? Quante persone ed imprese dovranno essere rovinate prima di porre fine a questo progetto folle chiamato euro?
Claudio Freschi